Goffredo Pistelli, ItaliaOggi 10/12/2013, 10 dicembre 2013
RENZI, DALLA POLVERE AGLI ALTARI
Dall’Obihall all’Obihall, dalla polvere agli altari, in meno di dieci mesi. Quando domenica sera, Matteo Renzi, sindaco piddino di Firenze, ha festeggiato coi suoi supporter la vittoria nelle primarie democratiche e la conquista della segreteria nazionale, pochi hanno ricordato che cosa era accaduto, su quello stesso palco, il 1 febbraio scorso. Quel giorno, in questa storico teatro tenda della periferia sud-est, il primo cittadino, in quanto grande sconfitto delle primarie di coalizione di fine 2012, deve dar prova di lealtà, comiziando con Pier Luigi Bersani, vincitore ai gazebo e in corsa per Palazzo Chigi.
Dopo una campagna dai toni durissimi, Renzi gli tocca ingoiare il rospo ed elogiare davanti a 3mila persone «Pier Luigi», mentre la macchina propagandistica del partito, che aveva già prodotto il demenziale video «Lo smacchiamo», schierando lo staff a ballare sulla terrazza del Nazareno, per quella sera ha escogitato la trovata dei Blues Brothers, i fratelli del filmone di John Belushi, che sarebbero lui e il segretario. Renzi s’è potuto sottrarre appena alla foto con gli occhiali scuri e il cappello, che invece l’allora segretario, disciplinatamente, s’è fatto scattare.
Eppure da quel gesto di sottomissione, dal bacio della pantofola del leader vincitore grazie allo schierarsi di tutto la nomenclatura ex-Ds ed ex-Margherita, si potrebbe far cominciare il cammino di riscatto del sindaco. Il quale, non appena, pochi giorni dopo, dalle urne esce il responso della disastrosa «non vittoria», come l’avrebbe chiamato Bersani, comincia ad accendere la betoniera per asfaltare (la rottamazione secondo la nuova vulgata) il vecchio establishment post-diessino e il «partito bocciofila».
Il suo capolavoro, in questo, è la capacità di cambiare obiettivo in corsa. Quando cioè capisce che il coniglio-Enrico Letta, tirato fuori dal cilindro di Giorgio Napoletano, governando per un paio di anni, l’avrebbe tenuto a bagnomaria col rischio di sgonfiarne il consenso, Renzi accetta il consiglio di ripiegare su un ruolo che ha sempre giudicato urticante: il segretario di partito. Prendersi il Pd, farne un partito moderno, deideologizzarlo, liberarlo soprattutto dalle ipoteche post-comuniste, quindi aprirlo ad altri italiani, e trasformarlo in un vero comitato elettorale per la scalata alla presidenza del Consiglio. Non semplicemente un taxi, come subito molti suoi avversari lo accusano di voler fare, ma una macchina a noleggio da rimessa, nuova, fiammante, potente, capace di seminare, lungo la via per Roma, la fuoriserie berlusconiana e le varie utilitarie del centrodestra.
In questo rapido riposizionamento è rappresentata la migliore caratteristica di questo 38enne fiorentino, laureato in legge con una tesi su Giorgio La Pira, il «sindaco santo», figura cui di cui è stato sincero ammiratore ex-post. Del politico siciliano non ha certo la mistica ma ha sicuramente la stessa scaltrezza che La Pira dimostra quando chiama al telefono Enrico Mattei, capo dell’Ente nazionale idrocarburi, per dirgli che lo Spirito Santo gli aveva rivelato in sogno «che l’Eni avrebbe salvato il Pignone», grande fabbrica fiorentina in crisi. Nella certezza che le pressioni su Amintore Fanfani, allora agli Intern, avrebbero fatto il resto.
Renzi è veloce e ha un intuito politico fuori misura. Respirato in casa, da babbo Tiziano, appassionato consigliere Dc di Incisa Valdarno (Fi), ma imparato soprattutto negli scout dell’Agesci, dove arriva a guidare l’informazione. Intuito rivelato quando il centrosinistra lo designa per guidare, nel 2004, la Provincia di Firenze, pensando, come si dice da quelle parti, «di far bella figura e spender poco» schierando un giovanissimo.
A capo di un ente da lui stesso considerato inutile, tanto che l’abolizione delle province sarà uno dei cardini della sua azione successiva, Renzi capisce che Palazzo Medici-Riccardi, sede della sua giunta, può essere un trampolino di lancio. Dinnanzi alla sicumera dei vip Ds e Margherita, per i quali la Provincia è semmai un luogo di sottogoverno, unito a qualche grana come il trasporto pubblico locale, Renzi sfodera un grande piano di promozione territoriale: il Genio fiorentino. Un cartellone di eventi, mostre, iniziative, per promuovere Firenze e la sua provincia, che la grandeur dei diessini di Palazzo Vecchio, sede municipale, non avevano mai preso neppure in considerazione.
E così fra un’allestimento d’arte alla Strozzina e un dibattito con Lorenzo Bini Smaghi, il giovane Renzi parla e fa parlare di sé, fuori dalla morta gora della politica fiorentina. È la stagione che i suoi avversari hanno cercato disperatamente di mettere sotto la lente lo scorso anno, portando a galla alcuni rilievi della Corte dei Conti su quelle spese e poco più.
Il Genio fiorentino diventa, a un certo punto, un’espressione di scherno nei suoi confronti, usata pubblicamente dai maggiorenti post-Pci, in pubblico, nelle riunioni e nelle cene di fondazioni, enti, agenzie, consigli di amministrazione in cui quel potere cinquantennale s’è andato ramificando in città. Un po’ dello stesso tenore, l’espressione che Renzi si sente rivolgere da una nota politica piddina d’ascendenza diessina, quando manifesta la scellerata intenzione di fare le primarie per il comune fiorentino. «Bambino, devi aspettare il suo turno», gli dice, piatta, lei.
L’intuito di Renzi, dicevamo. Quello che gli fa dire «vado a avanti», anche quando dal Nazareno, cambiano in corsa le regole di quelle primarie, evidentemente per nuocergli, anche se la maggior parte continua a sottovalutare. Si pensa che la candidatura del suo antico maestro, il parlamentare Lapo Pistelli, figlio del grande Nicola, deputato Dc della sinistra di Base negli anni ’60, gli prosciugherà il retroterra popolare e che la discesa in campo di pezzi da novanta dell’ex-Pci fiorentino, come il parlamentare Michele Ventura, l’assessora Daniela Lastri, neutralizzerà l’alleanza generazionale che Renzi, da poco Rottamatore, ha stabilito con alcuni giovani ex-Ds come Massimo Mattei e Dario Nardella. Errori di valutazione costati carissimi: il Genio fiorentino si dimostra davvero tale, portando ai gazebo oltre 15mila persone e polverizzando la concorrenza con oltre il 40%.
L’elezione a sindaco, nel 2009, mette di nuovo in luce le qualità di Renzi e tutti i limiti degli avversari.
Fra le prime c’è sicuramente la capacità di lavoro. La sua rupture con gli schemi politici sta anche in questo: il sindaco lavora duro e soprattutto sa far lavorare. Non si gingilla con i riti romani che hanno ammorbato anche la politica fiorentina, come discussioni, confronti, caminetti, verifiche preventive, Renzi semplicemente fa. Anzi, semmai, strafa: 100 luoghi, 100 proposte, 100 iniziative, lo schema a cui costringe lo staff e gli uffici è sempre un multiplo di 10, perché il senso della comunicazione ce l’ha innato, dai tempi degli scout, appunto. Quale cittadino si appassionerà mai a un rifacimento, un riordino, una riorganizzaizone? E quanta fatica, per farglielo sapere. Se però gli atti di governo diventano una campagna, una mobilitazione, un road show, ecco che anche gli scaltri e cinici fiorentini cominceranno a «cambiare verso», come si sarebbe detto dopo.
Fra i limiti degli avversari, specialmente quelli interni, la voglia emersa dal primo giorno di legislatura, di farlo fuori politicamente, come un intruso o, peggio, un alieno. Tendenza che corrobora il sindaco: consapevole che da lì si può prendere solo una direzione, quella di Roma.
Il Renzi in azione rivela però uno dei suoi difetti: l’attitudine al dirigismo.
Renzi comanda, Renzi dispone, Renzi segue prevalentemente il suo intuito e la sua visione, Renzi ha un ego forte e pronunciato. I verbi «rottamare» e «asfaltare», criticatissimi dalle anime belle del suo partito, rispondo perfettamente all’irruenza del personaggio che poggia su un’autostima ciclopica: Renzi, cioè, risponde solo a Renzi e quelli che riescono a stare da pari, o quasi, nel suo inner circle si contano sulle dita di una mano: Marco Carrai, l’amico di sempre, il politico divenuto consigliori e consigliere d’amministrazione in molte aziende che contano, dalla Ente Cassa di Risparmio all’Aeroporto di Firenze, l’uomo che potrebbe diventare il suo Gianni Letta, e Luca Lotti, il capo della segreteria, lo stratega delle ultime Leopolde, oggi deputato e atteso a ruolo di primo piano nel suo nuovo Pd.
Gli altri, che pure in quel cerchio magico stanno per familiarità o simpatia, non riescono ad avere ascendente su di lui, se non in rare occasioni. Per questo uomini come il televisivo Giorgio Gori, politici navigati come Roberto Reggi, già sindaco di Piacenza, o Matteo Richetti, presidente del consiglio emiliano, il suo ex assessore alla cultura, Giuliano Da Empoli, sono finiti un po’ a lato.
Non manca, d’altra parte, il suggerimento, quasi la supplica a Renzi ad assumere un assetto più strutturato. Suoi pubblici simpatizzanti, come l’ex-dalemiano Claudio Velardi e la politologa Sofia Ventura, l’hanno reiterato in più circostanze e il tema del suo eccessivo «one man show» comincia a comparire negli editoriali di qualche commentatore. Il neosegretario del Pd è un uomo ancora giovane e di un’intelligenza spiccata, obiettano altri, saprà dotarsi di quello che manca.
Solo su una cosa sarà difficile vedere Renzi cambiare: la sua innata tendenza alla battuta. Il sindaco, uomo personalmente molto serio, sinceramente religioso, capace di slanci di generosità, dice chi lo conosce bene, è portato irresistibilmente all’ironia. E non per una studiata strategia comunicativa, ma per carattere: il gusto sapido dell’espressione scherzosa lo accompagna da sempre. Un tratto che ricorda Giulio Andreotti, ma senza l’inclinazione alla freddura, e Silvio Berlusconi, senza la tendenza al doppio senso greve. Anche in questo, Renzi è Renzi.