Silvia Nucini, Vanity Fair 11/12/2013, 11 dicembre 2013
INGE FELTRINELLI IO CHE NON BALLO MAI DA SOLA
Le rughe di Inge Feltrinelli accompagnano le sue parole disponendosi sul viso secondo una coreografia gentile: ridono se ride, si increspano, si lisciano e qualche volta se ne vanno, forse dietro a un ricordo. Raccontano di tanta vita, ma la lasciano intuire felice, nonostante molte cose e grazie ad altre.
Soffusa in un’aura arancio che va dal rossetto al maglione, alla poltrona su cui è seduta («È il colore della speranza». Obietto: non era il verde? «No, si sbaglia»), la signora dei libri parla un italiano strano e duro e ricorda tutto. Non muove mai le mani, accavalla e disaccavalla le gambe e non si sottrae a nessuna domanda: sono certe pause un po’ più lunghe a suggerire che un ricordo fa male.
Ha da poco compiuto 83 anni e, per festeggiarla, la casa editrice di cui è presidente da più di 40 anni le ha dedicato un documentario – Inge Film di Luca Scarzella e Simonetta Fiori – che naturalmente parla di lei, ma anche delle mille persone che hanno attraversato la sua vita, e racconta le cose terribili e luminose del Novecento: il Nazismo, il dopoguerra, il sogno di una vita diversa, le feste, l’amore, la ricchezza, la cultura, gli ideali, il terrorismo, la perdita. Inge Feltrinelli ha conosciuto tutto e tutti, molti li ha anche fotografati, ma era ancora una ragazza, si chiamava Schönthal e quelle foto, una volta arrivata a Milano e diventata Feltrinelli, le aveva messe in soffitta e dimenticate. «Non ho mai più fotografato nessuno. La passione che avevo per la fotografia è stata sostituita da quella per i libri. Si può avere una passione sola nella vita».
La sua storia raccontata in un film e non in un libro. Non è strano per lei che in mezzo ai libri ci vive?
«È tutta colpa di mio figlio Carlo, che per anni ha insistito perché scrivessi della mia vita. Ma io ho troppo rispetto per chi scrive davvero, e mi sono sempre rifiutata, perché penso che gli editori non debbano scrivere, ma solo pubblicare. Allora Carlo ha aggirato l’ostacolo rendendomi protagonista di questo documentario: ho parlato per ben 14 ore davanti alla telecamera, come un’ebete».
È soddisfatta del risultato?
«No, io non posso vedermi, non mi piaccio. Nemmeno la voce, e quel mio italiano così approssimativo. Però è un racconto fedele, dice bene chi sono».
Una donna che ha vissuto di cultura e di relazioni sociali.
«I grandi editori – il vecchio Bompiani, il vecchio Einaudi, il vecchio Gallimard – per i loro autori erano banchiere, badante, psicologo, mamma e papà. Anche io l’ho fatto, per questo ho creato tanti rapporti, tante amicizie».
Era diverso quando pubblicare un libro era qualcosa che aveva a che fare con le persone?
«Molto: era come se i libri avessero più valore. Oggi si pubblica troppo, ci sono gli e-book, che facciamo anche noi, ovviamente, ma che a me non piacciono: non puoi farci la dedica, per esempio. Non puoi andarci in spiaggia. Il libro di carta è un oggetto sensuale. Io sono una donna pre-fax, pre-email, pre-iPad, pre-Google. Leggevo la sera con la pila, sotto la coperta, per non farmi scoprire dai miei genitori che volevano dormissi».
È stata una bambina felice?
«Sì. Nonostante la mia famiglia fosse di origine ebraica da parte di mio padre, è stato fatto di tutto per proteggermi, per sottrarmi al destino. Io ho capito quello che era successo solo dopo la guerra, quando per la fame rubavamo patate, mele e ciliegie nei campi. Ho avuto la fortuna di ricevere nonostante tutto un’istruzione incredibile: a Gottinga mi hanno insegnato che cos’è l’eccellenza, e poi ho passato tutto il resto della mia vita a cercarla nelle persone speciali, nelle cose speciali».
È una donna ambiziosa?
«No, curiosa. Sono orgogliosa di quello che ho fatto: volevo conoscere il mondo e l’ho conosciuto. Da un certo punto in poi è stato facile, ma prima è stato merito della mia determinazione. A vent’anni me ne sono andata dalla mia cittadina in autostop, ho fatto la fotoreporter dormendo per un anno su un lettino da campeggio dentro un laboratorio fotografico, sono arrivata in America su un cargo e la sera stessa sono andata a una festa dove ho trovato un passaggio per il Rio delle Amazzoni. Non mi sono lasciata scappare nessuna occasione. Ho sempre pensato che gli ostacoli non esistessero, che si potesse fare tutto».
Racconta che, da ragazzina, il suo sogno era vivere in America. Chiese a suo padre, che si era separato e aveva sposato un’americana, di aiutarla. Ma lui disse di no. «Sua moglie era gelosa, non mi voleva».
Ha sofferto per questo?
«Mah, non so. Molto presto ho capito che mio padre era un uomo poco interessante. Il sangue non è tutto. Capisco perché fece quel gesto, pensava di poter vivere senza memoria, quando invece la memoria è fondamentale».
Lei è sempre stata una donna molto attraente. La sua bellezza l’ha aiutata?
«Ero piccola, magra e sexy: dicevano che ero un misto tra Audrey Hepburn e Leslie Caron. Il mio aspetto mi ha aperto le porte, ha abbassato le diffidenze. Come quando sono arrivata a Milano, nel 1959, come terza moglie di Giangiacomo Feltrinelli. La gente era sospettosa, e poi erano anni in cui essere tedesco non era facile. Però sono piaciuta alla moglie di Elio Vittorini che, grazie alle sue cene a base di cassoeula, mi ha fatto conoscere persone interessanti. Così è iniziata la nostra vita sempre al massimo, sempre con la quinta inserita».
Quello con Feltrinelli fu un amore a prima vista?
«No, anche se mi ricordo perfettamente come fu quando lo vidi, a una festa ad Amburgo. Stava in un angolo, solo e annoiato. La prima cosa che gli dissi fu che in Italia conoscevo solo Luigi Barzini, la gaffe perfetta: era il secondo marito di sua madre, i rapporti non erano buoni tra di loro. Lui disse: “Oh madonna”. Però poi mi mandò una cartolina da Capo Nord, facemmo una crociera in barca a vela insieme, cominciò così. Era un uomo complicato, timido, arrogante, sapeva tante cose, era appassionato di politica, io non capivo niente. Sono arrivata a Milano e ho trovato un mondo culturale in fermento, era il posto giusto dove stare. Come disse Montanelli: milanesi non si nasce, si diventa. E io lo sono diventata».
Quanti anni è durato il vostro amore?
«Quattordici. Ci siamo lasciati per le sue idee politiche. Nel 1969 mi ha affidato tutta la responsabilità della casa editrice e si è dato alla clandestinità. Avevo visto una involuzione in lui. Quando avevamo incontrato Fidel Castro a Cuba, la prima volta, insieme, anche io ero rimasta entusiasta. Ma poi, quando lui ci era andato da solo la seconda volta, era tornato cambiato, per sempre».
Quella scelta la fece arrabbiare?
«Eccome. Però siamo stati amici fino alla fine. Anche se non si interessava più della casa editrice, gli piaceva la mia passione nel portare avanti la baracca. E abbiamo sempre collaborato per il bene di Carlo».
Che mamma è stata per Carlo?
«Mah, dovrebbe chiederlo a lui. È stato un ragazzino molto solo, dopo la scomparsa di Giangiacomo (trovato morto il 14 marzo 1972 a Segrate alla base di un traliccio: le indagini stabilirono che rimase incidentalmente vittima di un’esplosione durante un tentativo di sabotaggio, ma emerse anche la tesi dell’omicidio, ndr), e la sua adolescenza è stata difficile. Ma oggi siamo intimi, e questo è importante. Io sono stata una madre severa, non l’ho mandato in un collegio per ricchi in Svizzera, l’ho mandato al Parini. Da quaranta anni nella nostra vita c’è Tomás Maldonado, il mio compagno. Oggi, quando io non ci sono, Carlo chiama Tomás e gli dice: “Dai, facciamo colazione senza la rompiballe”».
Non è stato difficile per il suo compagno arrivare dopo una presenza ingombrante come quella di Feltrinelli?
«No, lui è sempre stato un uomo molto rigoroso, una roccia, un grande intellettuale. Un uomo fantastico, mi piace molto. È anche bello».
Nella sua lunga vita ha visto cambiare tante cose: rimpianti?
«Non amo la nostalgia, e sono una noiosa ottimista, anche in questi tempi disastrati. Credo nel potere creativo del caos, in cui gli italiani sanno tirare fuori le migliori qualità umane. Nelle vite lunghe come la mia, però, si perdono anche tante persone, e a volte è difficile vivere senza poter più telefonare a chi ti era caro».
A lei la morte fa paura?
«No, ho paura solo della sofferenza. Della morte per nulla: ho avuto una vita così bella».
Ogni volta che si parla di lei si dice che balla. Lo fa ancora?
«Certo, sempre».
Lo fa mai da sola?
«Non si balla mai da soli».