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 2013  dicembre 11 Mercoledì calendario

A FORZA DI RACCONTARE FAVOLE NON CAPIAMO PIU’ IL MONDO


1. QUALCHE MESE FA FREEDOM HOUSE, l’istituto privato basato a Washington, ha creato un po’ di sorpresa nel suo rapporto annuale sulla libertà di stampa nel mondo. La novità era che la libertà di stampa, in generale, è in declino nei paesi più colpiti dalla crisi finanziaria. La Spagna mostra un lieve declino nel suo punteggio, la Grecia un vero e proprio crollo, al punto che non viene più classificata come un paese con un sistema di media «libero», ma solo «parzialmente libero».
Niente di tutto questo in fondo può sorprendere chi conosca anche solo un po’ quello che è successo in questi anni in certi paesi dell’Europa del Sud. In Grecia è sufficiente che un oligarca del gioco d’azzardo o una banca disdicano le loro inserzioni pubblicitarie a un giornale sgradito, perché la sua voce sia ridotta al silenzio con il deposito dei libri in tribunale. In Ungheria, nei paesi baltici, in Repubblica Ceca, ma anche in Spagna o in Portogallo si sono viste, all’opera in questi anni dinamiche simili, in gradazioni diverse a seconda delle situazioni. Il declino della prosperità, specie se raggiunta in tempi più o meno recenti, non può che gettare sabbia negli ingranaggi della normale vita di una democrazia.
E in Italia? Non sorprende affatto che Freedom House releghi il nostro paese nel gruppo dei «parzialmente liberi» in tema di libertà di stampa. Gli argomenti del think-tank americano tutto sommato sono abbastanza logori e solo in parte davvero rilevanti. C’è il dominio di Silvio Berlusconi su una parte del sistema dei media, per quanto la sua figura sia in evidente declinò anche vista da Washington. C’è la scorta che deve ancora accompagnare Roberto Saviano ovunque a sette anni dalla pubblicazione di Gomorra, un segno di tutte le contraddizioni del paese. Ma casi come quello dello scrittore napoletano riflettono i problemi endemici della criminalità, più che un declino nella libertà di stampa legato alla grande recessione dell’ultimo quinquennio.
È possibile che il giudizio di Freedom House sia persino sbagliato e che in realtà l’Italia non sia affatto un paese libero solo parzialmente. Nelle edicole, alla radio, nei giornali online, nei blog o sui social network ogni giorno é disponibile una varietà di interventi sulla crisi, dall’analisi dei dati agli insulti. O entrambi i generi fusi insieme. Non c’è quasi niente che non si possa pubblicare, se solo si è abbastanza bravi da reperire le informazioni e farle circolare. Il potere esponenziale di Twitter ha creato opinion makers a costo zero che non fanno economia di giudizi su niente e nessuno.
2. Forse però occorre ribaltare il punto d’osservazione se si vuole giudicare davvero quanto liberamente circolino le idee e le informazioni in un paese. Non è sufficiente guardare a ciò che è possibile reperire sul mercato dei media. Bisogna anche guardare a ciò che le persone in posizione di responsabilità o di influenza in un paese si aspettano di leggere o ascoltare sul conto proprio o degli affari a cui sono interessati. Qui c’è una sfumatura in più che distingue l’Italia da molti altri Stati ai quali spesso cerchiamo di confrontarci. Più che in Germania, Francia, Stati Uniti o Gran Bretagna, in Italia i decisori sembrano nutrire attese particolari riguardo al tono e ai contenuti dei media. Istintivamente tendono ad aspettarsi che le televisioni, i giornali e i giornalisti facciano propria la loro agenda. Nella maggior parte dei casi non vi sono pressioni indebite perché ciò avvenga, ne proteste a cose fatte se e quando non è avvenuto. Spesso le persone influenti sono di gran lunga troppo sofisticate per scivolare in cadute di stile di questo tipo, o sono troppo oneste. In fondo solo una minoranza fra loro esce grossolanamente dalle regole di convivenza con il quarto potere tipiche del mondo occidentale.
Semplicemente, politici, imprenditori o responsabili delle istituzioni italiane molto spesso ritengono d’istinto che il loro programma debba essere quello dei giornalisti che partano di loro. La vedono quasi come una legge non scritta, una realtà talmente ovvia che non è neppure il caso di discuterne. Qualunque deviazione suscita stupore, disagio, indignazione. C’è da capire i potenti d’Italia, perché in molti decenni del dopoguerra questa dinamica è stata spesso qualcosa di simile a una regola. Non che essa sia sempre stata il prodotto di atteggiamenti opportunistici o poco trasparenti degli editori o dei giornalisti stessi. A volte le ragioni di quella che si potrebbe chiamare l’internalizzazione dell’agenda dei policymakers da parte dei media sono molto meno machiavelliche. O più legate alla struttura della società.
Per esempio, la scarsa mobilità sociale tipica dell’Italia dopo gli anni Sessanta ha assunto con il tempo, nell’industria dei media, una sua declinazione particolare: le persone nascevano e morivano professionalmente occupandosi sempre dello stesso argomento, avendo a che fare con gli stessi interlocutori, spesso anche con narrazioni già organizzate in un modo più o meno fisso. Questo fenomeno ha prodotto una sorta di cattura involontaria dei giornalisti ad opera delle loro fonti, in cui entrambe le parti hanno finito per condividere una visione della realtà e degli interessi in gioco. Parte dell’internalizzazione dell’agenda e dell’aspettativa dei potenti che ciò avvenga ancora oggi si spiega proprio così. Sarebbero fuori luogo in molti casi (non tutti) le teorie del complotto.
Poiché Freedom House ha messo i media in Italia fra i «parzialmente liberi» a causa di Berlusconi, ma continua a tenerceli anche dopo il suo declino, si tratta di capire come questa struttura del rapporto giornalismo-potere stia reagendo alla grande recessione. Se tutto cambia nel paese dopo un crollo del 9% del prodotto interno lordo, senz’altro qualcosa sta succedendo anche in questo punto nevralgico. Il meno che si possa dire è che il modello dell’internalizzazione dell’agenda dei policymakers in Italia non ha funzionato. Si può condividerlo o meno, ma non ha prodotto gli effetti di norma desiderati da chi guida un paese: non ha prodotto efficienza, prosperità, persuasione degli elettori, credibilità dei responsabili politici e finanziari. Oggi tutti in Italia, inclusi i più ingiustificatamente ricchi e i più influenti, condividono la stessa sensazione di impotenza. Tutti si sentono in qualche modo vittime della piega che il paese sta prendendo. Tutti ne sono frustrati e si considerano incapaci di influenzare gli eventi come vorrebbero. Dal primo all’ultimo degli italiani, non uno si sente vincente o soddisfatto, o anche solo capace di indirizzare il paese dalla parte voluta.
3. Naturalmente non è tutta colpa del sistema dell’informazione, eppure il rapporto tradizionale fra media e potere può aver avuto un ruolo in questa condizione di frustrazione generale. Come in Grecia, anche se in misura molto minore, i media hanno faticato a raccontare la crisi finanziaria perché le élite del paese hanno faticato a capirla. Quando sono arrivati i primi segnali di instabilità, benché con il senno di poi apparissero prevedibili, sull’analisi degli eventi e delle sue cause spesso ha fatto premio la ricerca dei colpevoli. Quasi sempre fuori dalla cerchia della società italiana. Così il più ovvio dei colpevoli era sempre nascosto fra gli «speculatori» dei mercati finanziari, spesso senza un volto, come se chi investe fosse tenuto ad assicurare il benessere di un paese e non il proprio o quello di chi gli affida i propri risparmi.
In questa accusa alla speculazione ha iniziato ad affiorare uno dei riflessi ricorrenti nella narrazione della crisi finanziaria in Italia: l’idea che qualcosa fosse dovuto al paese, come per rango o per diritto acquisito, e che comunque si sarebbe avuto un lieto fine dopo la grande paura. In fondo questa era stata l’idea prevalente nella crisi del 1992, quando la lira dovette lasciare il sistema di cambio europeo: l’Italia era stata colpita da uno speculatore di nome George Soros, che aveva rovinato un intero paese per arricchirsi. All’epoca, pochi si resero conto che una svalutazione del 30% della lira equivaleva a un’insolvenza di fatto sul 30% del valore dei titoli di Stato venduti all’estero sulla base di un impegno solenne a non svalutare. Gli italiani non percepirono mai il loro paese come in default parziale. Al contrario, in quell’occasione avvenne qualcosa di quasi unico nella storia delle crisi finanziarie: grazie alla rincorsa dell’euro, i tassi d’interesse di un’economia semi-insolvente crollarono sui livelli di paesi più solidi nel giro di appena cinque anni. Poco dopo un default parziale nei confronti dei creditori esteri, l’Italia aveva la moneta e i tassi più «virtuosi» del mondo. Una conferma plateale che il paese aveva sempre titolo ad aspettarsi un lieto fine alle sue peripezie.
Eppure in questa crisi l’happy ending tarda ad arrivare. Quando gli «speculatori» internazionali sono stati biasimati abbastanza, molte delle critiche si sono spostate su Angela Merkel e sulla Germania «egoista» perché il suo governo non cerca di soddisfare le richieste degli elettori e dei politici italiani, ma i propri. Questa fase della narrativa della grande recessione non è ancora superata. Per quanti legittimi motivi di dissenso possano esserci sulla condotta del governo tedesco, i temi anti-Merkel hanno centrato soprattutto un obiettivo: trovare un colpevole all’esterno di ciò che sta accadendo all’interno dell’Italia e non discutere seriamente di ciò che l’Italia potrebbe fare per indurre se stessa e il governo tedesco a una cooperazione più costruttiva. Ancora una volta, il racconto di ciò che accade nell’ambito della crisi non serve a spiegare, ma ad assolvere e a nascondere. Le élite italiane, capaci di indirizzare il dibattito pubblico sui problemi unicamente interni al paese in tempi normali, si sono rivelate incapaci di farlo in tempi eccezionali su problemi non solo domestici. Per lo più, non sono state in grado di interpretare le interazioni politiche, finanziarie ed economiche dell’Italia con il mondo fuori di essa.
Il risultato ricorda il panorama sociale e politico che offre oggi la Grecia. Gran parte delle persone fatica a capire razionalmente quanto sta accadendo in Italia. Sam McClure, giornalista dell’epoca di Theodore Roosevelt in cui i quotidiani erano in grado di obbligare il governo a spezzare i grandi monopoli industriali, diceva: «La vitalità della democrazia dipende dalla conoscenza popolare di questioni complesse». Se questo è vero, oggi la vitalità della democrazia italiana è bassa e il giornalismo non ha fatto fino in fondo il suo mestiere. (Come giornalista economico di professione, ovviamente, anch’io mi prendo la mia parte di responsabilità.)
Mentre gran parte delle persone fatica a capire, nelle élite si nota un fenomeno anch’esso peculiare: la forbice fra i loro discorsi pubblici e privati si allarga sempre di più. Questo è uno spread che non accenna a diminuire. L’abitudine a esprimere opinioni e raccontare fatti diversi in circostanze diverse c’è sempre stata ed è inevitabile e sana in una certa misura. Questi anni pero hanno visto un allargamento della forbice, chiaro segno di sfiducia nella possibilità di avere una discussione alla luce del sole sui problemi nella loro dimensione reale. Tutto questo ha contribuito fra gli italiani a un crollo della fiducia in se stessi e soprattutto verso gli altri. E la libertà senza fiducia è come un ingranaggio impossibile, come una scala di Escher.