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 2013  dicembre 10 Martedì calendario

QUANDO LE MULTINAZIONALI DISSERO NO ALL’APARTHEID


Almeno un centinaio di capi di Stato e di governo e molte star internazionali saranno oggi a Johannesburg alla commemorazione di Mandela nello stadio di Soweto, dove sono attese 200mila persone.



Dietro l’icona di Nelson Mandela e oltre i confini del mito della lotta alla segregazione razziale emergono le ambiguità e le contraddizioni di un percorso che ha abbracciato un secolo di storia. Alla fine degli anni ’80 per capire se davvero il Sudafrica dell’apartheid sarebbe cambiato, bisognava andare a Johannesburg ma anche a Londra, a Charterhouse Street, dove a qualche fortunato, come chi scrive, fu concesso di intervistare sia Harry Oppenheimer, maggiore azionista della De Beers, che Gavin Reilly, presidente dell’Anglo-American.


Nella sala del tesoro della corporation spiccavano diamanti grandi come arance: nessun sovrano sulla terra poteva aspirare a qualche cosa di simile. Fosse stato per questi personaggi del grande business e per la dirigenza dell’African National Congress, l’apartheid doveva essere già finito allora.
Fu Gavin Reilly a cambiare la storia incontrando nell’85 a Lusaka lo stato maggiore dell’Anc, grazie anche ai buoni rapporti della De Beers con l’Unione Sovietica che sosteneva la dirigenza nera e soprattutto il partito comunista sudafricano. Reilly, veterano del fronte italiano durante la Seconda guerra mondiale, tornò da questo incontro confortato. «Mi è sembrato - disse il capo dell’Anglo American-De Beers - che anche i leader comunisti dell’Anc non ci tengano più di tanto ad apparire dei marxisti: anzi mi pare che capiscano perfettamente le esigenze della libera impresa». Ma naturalmente al termine libera impresa bisognava forse sostituire «capitale monopolistico»: De Beers controllava l’80% del mercato mondiale dei diamanti.
Il grande business puntava alla fine delle sanzioni internazionali contro il Sudafrica e quindi della segregazione razziale. Per convincere gli afrikaner, i capi delle corporation cooptarono nei negoziati con l’Anc anche la Broederbond, la Fratellanza dei boeri, la più potente associazione segreta del Paese, indispensabile per avviare la transizione attenuando le reazioni degli estremisti bianchi.
«Molti bianchi temono un passaggio a un governo nero perchè perderanno dei privilegi, ma per loro questa può essere l’occasione per migliorarsi, per non perdere posizioni nella scala sociale, per muoversi verso traguardi più ambiziosi». Così diceva Basil Hersov, presidente dell’Anglovaal, uno dei più importanti gruppi minerari. Dal suo ufficio in Main Street, cuore economico e finanziario del Sudafrica, Johannesburg sembrava davvero - come scriveva nel ’78 il direttore di Fortune Herman Nikel - «l’unico vero complesso industriale a Sud di Milano».
Basil Hersov - ebreo lituano come il capo del partito comunista sudafricano Joe Slovo - e gli altri magnati dell’industria sudafricana, conoscevano bene l’Anc e il suo leader, Nelson Mandela. Al meeting di Lusaka del battistrada Gavin Reilly ne erano seguiti molti altri.
Ci furono decine di incontri segreti in una grandiosa dimora di campagna in Inghilterra, Mells Park House, nella quale il futuro presidente del Sudafrica, Thabo Mbeki, che era stato uno dei più brillanti allievi africani della Scuola Lenin di Mosca, sorseggiava whisky con i capi delle grosse imprese che qualche decennio prima avevano sostenuto l’apartheid. Il gigante britannico Consolidated Goldfields forniva la sede e il whisky. Lo scopo di queste riunioni era di dividere i "moderati" - come Mbeki e Mandela - dai gruppi più rivoluzionari delle township che evocavano i ricordi delle insurrezioni seguite al massacro di Sharpeville nel 1960 e le rivolte di Soweto degli anni ’70.
L’Anglo American-De Beers lavorava da tempo per creare una classe media nera e per allevare la dirigenza che avrebbe dovuto guidare il movimento anti-apartheid dopo la fine della segregazione. Harry Oppenheimer in un’intervista mi parlò benissimo di Cyril Ramaphosa, il capo dei sindacati minerari che giocò un ruolo cruciale nella transizione come negoziatore. «Lui - disse il già anziano Harry - potrebbe essere il leader del futuro dopo Mandela», del quale nessuno naturalmente osava contestare il carisma. Sappiamo poi come sono andate le cose: la borghesia nera si è moltiplicata nel caldo abbraccio dell’Anc ma si è anche approfondito il divario tra il Sudafrica dei ricchi e quello dei poveri.
Harry Oppenheimer si era dunque sbagliato? No, e solo in parte. Ramaphosa negli anni’ 90 ha perso la corsa per sostituire Mandela alla presidenza contro Thabo Mbeki, in compenso è diventato un agiato uomo d’affari, al ventesimo posto nella classifica di Forbes tra i 50 africani più ricchi. È azionista della Lonmin e delle miniere di Marikana: qui il 16 agosto 2012 sono stati uccisi dalla polizia a raffiche di mitra nella schiena 34 scioperanti e a invocare «un’azione coordinata e decisa contro la protesta di questi criminali» è stato proprio Ramaphosa, un tempo il formidabile leader dei sindacati. In questo lungo addio a Mandela nel Sudafrica che resta nero e bianco non mancano i toni di un livido colore grigio.
Alberto Negri