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 2013  dicembre 10 Martedì calendario

BELLI, CHE TENERO SUOCERO


LE LETTERE
Dà sempre una vertigine entrare nella vita degli artisti: ci aspettiamo, dai documenti del loro privato, sempre qualche rivelazione, qualcosa che ne illumini l’opera. Il più delle volte, in effetti, accade. Talvolta si rischia qualche delusione, ma la stessa delusione può dirci molto. Tra le lettere di Giuseppe Gioachino Belli, uno dei nostri maggiori poeti dell’Ottocento, si va incontro a un’esistenza tutto fuorché avventurosa. Ripetitiva se non monotona, «scandita al più da periodici cambi di residenza e da quelle piccole traversie provate che nessuna ripercussione ebbero al di fuori dell’angusta cerchia delle pareti domestiche». Così scrive un giovane studioso, Davide Pettinicchio, che in un lavoro critico ancora inedito ha messo il naso nelle carte belliane cercando indizi non tanto dalle lettere del poeta – già ampiamente note – ma da quelle dei suoi familiari. Mentre si avvicina il 150° anniversario della morte dell’autore dei Sonetti – 21 dicembre 1863 – e il Centro Studi promuove due pomeriggi di letture al Teatro Argentina di Roma, l’11 e il 18 dicembre, lo studio di Pettinicchio offre l’occasione per entrare in casa Belli. Quest’uomo vissuto in disparte, diviso fra ribellione – lo slancio polemico e aggressivo del romanesco – e obbedienza – l’incarico di «censore» della morale politica, lascia affiorare anche nelle lettere vere e proprie tempeste di «umor nero», burrasche di insofferenza e di rabbia. Non è mai pacifico né pacificato, Belli, anche se forse alcune letture e ritratti hanno insistito con qualche eccesso sul suo lato depresso.

EQUILIBRIO
Lo studio di Pettinicchio prova a dimostrare per esempio che negli ultimi anni di vita, più che un «superstite fantasma di sé stesso», come l’aveva definito Vigolo, Belli sembra capace di rapporti familiari, se non più distesi, almeno equilibrati. Lo dimostrano diversi scambi epistolari con quella «sora Crestina» a cui è rivolto l’ultimo sonetto del grande poema belliano. «Sora Crestina» è Cristina Ferretti, e non è solo la figlia di un amico di vecchia data del poeta: diventerà anche sua nuora, sposando nel 1849 Ciro. Con Cristina, Belli riesce a mostrarsi più confidenziale e affettuoso che con il proprio stesso figlio. Il tormentatissimo, ambiguo, difficile Belli pare aprirsi soltanto con la giovane nuora. Si prende perfino la briga di intervenire nella vita matrimoniale di Ciro e Cristina, quando le cose si complicano: lui arido e cupo, appassionato solo ai fiori; lei vitale, schietta ma permalosa – e tra i due, a mettere pace, il vecchio inquieto poeta. «Figlia mia cara»: Belli chiama così Cristina, scherza con lei scherzando magari su Ciro e su sé stesso. Belli si rappresenta – come spesso accade anche altrove – goffo e impacciato, «ingrignito», misantropo: non gli piace uscire di casa, è afflitto da diversi malanni e da momenti di tetraggine e malinconia. Ciò non toglie che sappia e voglia prendersi cura, a modo suo, dei propri cari: si affaccia alla finestra e scruta con ansia il cielo, mentre loro sono in viaggio. «Ieri – scrive a Cristina nel settembre 1854 –, mentre Ciro viaggiava, non potendolo io accompagnare per terra lo seguivo con gli occhi nel cielo, per pure scoprir fra le nuvole se qualche rovescione d’acqua lo potesse mai cogliere in cammino». E Cristina? Che voce ha? Le lettere inedite ce la presentano spesso combattiva, nonostante i problemi di salute che la assillano e la costringono a restare isolata, paziente, materna. Quando si abbatte, Belli la consola; lei gli risponde devota, anche se questo vecchio uomo solo è piuttosto ingombrante .

I BAMBINI
Nelle lettere si parla con frequenza anche dei nipotini: allegri quadri di vita familiare funestati, come nei primi anni Cinquanta, dalla malattia e dalla morte prematura di alcuni di loro, Maria Teresa e Giuseppe Gioachino. Cristina soggiorna a Frascati per riprendersi dalle sventure e, benché devastata dal dolore, non smette di preoccuparsi per la solitudine del suocero. Che la rassicura «No, Cristina mia bella, non vi angustiate sulla malinconia che mi domina».
Paolo di Paolo