Maurizio Ricci, la Repubblica 10/12/2013, 10 dicembre 2013
LA FINE DELL’ECONOMIA
Sboom! E la crescita non c’è più. No, non perché c’è la recessione. Ma perché la crescita è finita: il lungo boom che ha accompagnato due secoli e mezzo di rivoluzione industriale si è esaurito e si torna allo sviluppo zero o poco più della storia precedente. O, magari, va un po’ meglio, ma neanche troppo e bisogna accontentarsi di una “stagnazione secolare”: o quella o le bolle, come l’ultima dei subprime. In un caso o nell’altro, a far venire i brividi è che l’allarme non arriva dalla stanca Europa, sull’orlo della deflazione, o dal vecchio Giappone che, in quella spirale è caduto da vent’anni, ma dal paese che, da sempre, si autodefinisce “la terra delle opportunità illimitate”, animata dalla fede incrollabile in una robusta crescita economica che continuerà per sempre. Gli americani, a quanto pare, cominciano a dubitare anche di loro stessi. E non aiuta che, alla stessa conclusione di un destino di ristagno, almeno per i paesi avanzati, arrivino, con percorsi diversi, economisti che partono da posizioni teoriche opposte.
Perché questa non è una provocazione di oscuri studiosi. Ad accendere la miccia del dibattito è stato uno degli economisti più autorevoli del paese, ex ministro del Tesoro e il vero candidato di Obama alla guida della Fed: Larry Summers. E, sullo stesso treno è immediatamente saltato, con una punta di invidia («da un po’ andavo dicendo le stesse cose, ma Larry, accidenti a lui, le ha dette meglio», ha scritto sul suo blog) un personaggio altrettanto autorevole, come il premio Nobel Paul Krugman. Il punto di partenza è che, a quattro anni dalla fine della crisi dei subprime, l’economia americana non riesce a decollare. Peggio, dice Summers, questo era vero anche prima della crisi: nonostante l’enorme bolla di debiti e liquidità dei subprime, non c’era nessun segno di surriscaldamento dell’economia, di un impennarsi dell’inflazione.
Il motivo? Secondo Summers questo è avvenuto, perché il tasso di interesse teorico che può mettere in equilibrio risparmi ed investimenti, in un contesto di piena occupazione, si è abbassato in via permanente. Anzi, è diventato (al netto dell’inflazione) negativo. Fuori dal linguaggio in codice: per convincere un’azienda a prendere i soldi in prestito e investire, bisognerebbe che non pagasse nessun interesse su quel credito, anzi, che le si regalassero soldi in più. E i risparmiatori dovrebbero pagare per tenere i loro soldi in banca. Una situazione estrema, che non si può reggere a lungo. Esagera Summers? Niente affatto, dice Krugman. Di fatto, è la situazione che l’America vive da trent’anni. L’economia sarebbe rimasta ferma se non ci fosse stata una bolla dietro l’altra, a sostenere i consumi. Prima quella delle casse di risparmio con Reagan. Poi quella delle dot.com, con Clinton. Infine, quella dei subprime, con Bush. Tutte a drogare l’economia e i consumi, ma senza che partisse l’inflazione.
Dietro, sottolinea Martin Wolf, c’è uno squilibrio di base: non ci sono abbastanza investimenti per assorbire una mole crescente di risparmi. E le radici di questo squilibrio sono profonde e durature. Anzitutto, l’impennarsi dell’ineguaglianza nella società americana. I benefici della crescita degli ultimi decenni sono stati sequestrati dall’1% più ricco. Dal dopoguerra al 1973 il reddito tipico di una famiglia americana è più che raddoppiato. Nei trent’anni successivi è cresciuto solo del 22%. Nell’ultimo decennio è, di fatto, diminuito. Ma i ricchi risparmiano molto e consumano poco. Per il resto, solo le bolle e i debiti hanno consentito al consumatore medio di continuare a spendere ed hanno così invogliato le imprese ad investire. Ma c’è un trend ancor più di fondo: la demografia. L’Europa invecchia, ma, un po’, anche l’America: nei prossimi dieci anni, la forza lavoro, negli Usa, aumenterà solo dello 0,2% l’anno. Significa meno famiglie nuove, meno case, meno elettrodomestici, meno auto. Così, anche quando investono, le imprese non hanno la stessa funzione di traino di una volta. Perché investono soprattutto in informatica e, poiché i prezzi della tecnologia dell’informazione scendono del 20% l’anno, anche lo stesso volume di investimenti comporta meno soldi di prima nell’economia.
Troppa tecnologia, insomma. O, invece, troppo poca? Perché se keynesiani come Summers e Krugman interpretano il ristagno presente e futuro come una carenza strutturale di domanda, altri economisti erano già arrivati alla stessa pessimistica conclusione partendo dai difetti dell’offerta. Non c’è abbastanza innovazione, dice Tyler Cowen, per spingere la produttività e, quindi, i redditi. È il tema di un saggio di un anno fa di Robert Gordon. La seconda rivoluzione industriale — quella dell’elettricità, dell’auto e del trattore, anche della toilette dentro casa — quella sì che ha rivoluzionato il nostro modo di vivere e il nostro modo di produrre. I suoi benefici sull’economia si sono protratti per quasi un secolo. La terza, quella del computer e di Internet, ha esaurito, invece, la sua spinta sulla produttività già negli anni ‘90. Le innovazioni continuano, ma non rivoluzionano l’economia. L’auto senza guidatore è una meraviglia, ma, una volta che sei dentro, poco importa chi guida. Gli smartphone o gli occhiali di Google sono un modo per divertirsi, più che per produrre meglio e di più. Se alla marginalità di queste innovazioni aggiungiamo le tendenze demografiche, il ristagno è inevitabile. Gordon prevede che il tasso di sviluppo a lungo termine americano si dimezzi in questo secolo, dal 2 all’1% l’anno. Considerata l’ineguaglianza dei redditi, significa che il 99% degli americani dovrà accontentarsi di migliorare il proprio tenore di vita dello 0,5% l’anno. Non siamo lontani dallo 0,2% che ha segnato i secoli fino al ‘700: la “nuova normalità” è il mondo prima della macchina a vapore. Poi, magari, come osserva Krugman, domani esce un’invenzione paragonabile alla lampadina e tutto questo pessimismo va in fumo. Fino a quel momento, però, se considerate il vostro iPhone la porta ad un mondo nuovo, siete degli ottimisti.