Giorgio Cuscito, Limes 9/10/2013, 9 ottobre 2013
L’ARTE CINESE DI NON COMBATTERE ALLA PROVA DELLA GUERRA DI SIRIA
1. NEL CONFLITTO SIRIANO PECHINO È SOLO apparentemente in disparte. Durante il G20 di San Pietroburgo, il presidente Xi Jinping aveva già chiarito che la Cina è contro l’uso di armi chimiche ma non a favore di un intervento militare americano, giacché tale atto unilaterale rappresenterebbe una violazione del diritto internazionale e potrebbe ingigantire il conflitto. Tradotto: qualora l’intervento militare in Siria fosse posto ai voti in seno al Consiglio di Sicurezza dell’Onu, è probabile che la Cina (con la Russia) opporrebbe il veto. In tal caso, sarebbe la quarta volta che Pechino usa la sua massima arma diplomatica per difendere il regime siriano. Per la Cina l’unica strada possibile è la soluzione politica, con il consenso anche di Damasco: di qui il favore con cui ha accolto il precario accordo tra Washington e Mosca.
Pechino non è interessata eccessivamente a difendere la Siria, con cui gli scambi commerciali sono ancora modesti. Piuttosto, desidera la stabilità complessiva del Medio Oriente. Le ragioni sono due: il timore che le primavere arabe possano produrre un effetto di imitazione in parte della popolazione cinese e l’importanza del Medio Oriente quale principale area di approvvigionamento energetico per l’Impero del Centro.
I leader di Pechino sospettano che rivolte come quelle di Egitto, Libia e Siria possano sollecitare il popolo cinese a pretendere più diritti e, nel peggiore dei casi, a smantellare il sistema monopartitico retto dal Partito comunista cinese (Pcc). Tale timore è dovuto alle molteplici fratture sociali, etniche e religiose, alla corruzione dilagante e alle numerose violazioni dei diritti umani che rendono la Cina più instabile di quanto spesso si pensi. A ciò si aggiunge il rischio di diffusione del terrorismo islamico attraverso i confini occidentali: questo troverebbe terreno fertile nel Xinjiang (o Turkestan Orientale, nella versione turco-islamica), dove vivono gli uiguri, minoranza etnica di religione musulmana. Contro i quali Pechino conduce da tempo una campagna di «normalizzazione» che spesso provoca sanguinosi scontri e attentati. Il pericolo sarebbe confermato dalla notizia pubblicata lo scorso luglio dal quotidiano cinese Global Times, secondo cui un centinaio di uiguri si sarebbero uniti ai ribelli siriani per combattere il regime di al-Asad.
In merito alla questione energetica, secondo la Us Energy Information Administration (Eia), in questo ottobre la Cina dovrebbe diventare il primo importatore netto di petrolio su base mensile (con 6,45 milioni di barili al giorno) e nel 2014 su base annuale. Così scavalcando gli Usa - la cui produzione domestica di energia sta aumentando grazie allo shale gas - i quali dovrebbero importare l’anno prossimo circa 6,23 milioni di barili al giorno. Il Medio Oriente è la regione da cui la Cina importa più petrolio in assoluto (circa il 60%). L’Arabia Saudita è il suo primo fornitore di greggio, con un quinto del totale importato. Nel 2007 lo scambio commerciale tra i due paesi ammontava a 25,4 miliardi di dollari, nel 2011 a 64,32 miliardi e nel 2012 a 73,4 miliardi. Nel 2012 l’Iran è stato il quarto fornitore di petrolio della Cina - una posizione in meno rispetto agli anni precedenti, probabilmente dovuta alle sanzioni imposte dagli Usa a Teheran. Inoltre, Pechino sta sviluppando progetti di esplorazione petrolifera sia in Iran sia in Iraq.
In questo contesto si capisce perché Pechino punti su una soluzione politica che eviti il propagarsi del conflitto negli altri paesi del Golfo. Tuttavia, se Washington optasse in Siria per un intervento militare di breve durata, capace di ripristinare la stabilità, gli interessi regionali cinesi sarebbero salvaguardati.
Certo è facile cominciare una guerra, più difficile è prevedere quando e in che modo finirà. Come ha affermato il viceministro delle Finanze Zhu Guangyao durante il G20 di San Pietroburgo, un intervento prolungato potrebbe far impennare il prezzo del petrolio, provocando gravi danni economici al suo paese e al resto del mondo. Inoltre, il proseguimento del conflitto tra il regime e i ribelli costringerebbe la Cina a filtrare con attenzione le notizie in Rete provenienti dalla Siria (per non stimolare gli irrequieti netizens cinesi) e ad alzare il livello di sicurezza lungo il confine occidentale. Anche in questo caso non tutto il male verrebbe per nuocere: un coinvolgimento americano simile a quello in Afghanistan o in Iraq potrebbe significare il fallimento del cosiddetto pivot to Asia: lo spostamento del focus geostrategico statunitense dal Vicino all’Estremo Oriente voluto da Obama per concentrarsi sul contenimento della Cina. Se truppe Usa fossero coinvolte nel conflitto siriano, il Medio Oriente si confermerebbe l’unico vero perno (pivot) americano su scala globale. In tutte e tre le ipotesi di evoluzione del conflitto siriano (soluzione politica, intervento limitato, attacco prolungato) Pechino può dunque guadagnarci qualcosa.
Il fatto che «la Cina s’impegna a sostenere l’indipendenza, la sovranità, l’unità e l’integrità territoriale della Siria, la pace e la stabilità in Medio Oriente e la pace e la tranquillità del mondo intero» non dipende solo dalle contingenze politiche, ma dalla cultura strategica dei dirigenti di Pechino. Cerchiamo di far luce sulle sue radici e sui suoi recenti sviluppi per comprendere come essa influenzi la pianificazione geopolitica cinese.
2. Come ha affermato il generale Li Jijun, ex vicepresidente dell’Accademia delle Scienze militari, «la cultura è la radice e il fondamento della strategia. Il pensiero strategico nella sua evoluzione storica fluisce nella corrente della cultura di un paese. La cultura strategica di un paese non può che fondarsi sulla sua tradizione culturale, che in modo complesso e inconscio prescrive e definisce la strategia». Tale concetto è particolarmente vero quando si parla della Cina. Le attuali strategie di Pechino, infatti, risentono profondamente dei principi e delle teorie formulate agli albori dell’epoca imperiale. Lo conferma l’ultimo Libro bianco dell’Esercito di liberazione del popolo (Elp) intitolato Il diversificato impiego delle Forze armate cinesi. Il documento, pubblicato lo scorso aprile, descrive le sfide e le minacce che l’Elp affronterà nei prossimi anni in campo internazionale. Partendo dall’analisi di questo testo è possibile identificare i principali elementi che caratterizzano la cultura strategica mandarina.
Il primo è lo «sviluppo pacifico» (heping fazhan). Secondo il Libro bianco, da trent’anni a questa parte «la Cina persegue una politica estera indipendente di pace e una politica nazionale di difesa». Tale concetto, diventato parte integrante della retorica governativa durante la presidenza di Hu Jintao, affonda le radici nella filosofia confuciana, uno dei pilastri della cultura strategica cinese.
Confucio (in cinese Kongzi, il maestro Kong) visse tra il 551 a.C. e il 479 a.C., alla fine del Periodo delle primavere e degli autunni, e fu testimone degli scontri feudali che diedero inizio al Periodo dei regni combattenti. Per circa due secoli (dal 463 a.C. al 222 a.C.), infatti, i sette regni Han, Wei, Zhao, Qi, Qin, Yan e Chu si scontrarono per il dominio della Cina. La guerra terminò con la vittoria dei Qin. Yi Zheng, il sovrano trionfatore, fu ribattezzato Qin Shi Huang, ovvero «primo imperatore della dinastia Qin». Di qui parte la parabola dell’impero cinese.
Quella sanguinosa guerra stimolò un grande fermento culturale e il fiorire di un insieme di correnti filosofiche conosciute come le «cento scuole di pensiero». Tra queste, anche la confuciana. Kongzi e i suoi discepoli non suggerivano straregie per sopraffare il nemico, offrivano piuttosto gli strumenti per la creazione di un governo e di una società migliori. Secondo il filosofo, il sovrano doveva governare attraverso la benevolenza (ren) e i riti (li) per mantenere l’armonia in famiglia, la stabilità nel regno e la pace nel mondo (xiu shen, chi jia, zhi guo, ping tianxia), perché «la pace era preziosa» (he wei gui). Solo un individuo morale poteva creare nella società e nel mondo un ordine morale. Con la Cina al suo centro, naturalmente. L’armonia universale era possibile solo se gli Stati non si attaccavano l’un l’altro. Sfortunatamente per Confucio, nessun sovrano seguì i suoi insegnamenti mentre lui era in vita. Riunificata la Cina, i Qin adottarono il legismo (faija), secondo cui il re poteva governare solo imponendo la legge e usando la forza, poiché l’uomo era egoista per natura. Qin Shi Huang cercò addirittura di distruggere gli scritti di Confucio, per cancellarlo dalla storia. L’effetto fu opposto. La dinastia Han, che seguì quella Qin, adottò il confucianesimo come filosofia nazionale. Il concetto di armonia, che oggi regola la società cinese, spiega sul piano culturale la necessità di una risoluzione pacifica del conflitto siriano e la natura difensiva dell’Impero di Centro.
Così arriviamo al secondo punto chiave del Libro bianco, riassumibile nella seguente affermazione: «La Cina non ricerca l’egemonia, non perseguirà nessun comportamento egemonico ne si impegnerà nell’espansione militare». Una frase che fa venire in mente quella del «grande timoniere» Mao Zedong: «Non vogliamo neanche un centimetro di suolo straniero». E ricorda anche la necessità di «opporsi all’egemonismo» (leggasi: americano e sovietico) sostenuta dal «piccolo timoniere» Deng Xiaoping.
A differenza dei grandi imperi coloniali occidentali, la Cina non ha mai perseguito una campagna espansionistica che andasse oltre il continente asiatico. Nei primi anni del Quattrocento l’ammiraglio Zheng He, al servizio dell’imperatore Zhu Di della dinastia Ming, guidò la propria flotta in numerose spedizioni, toccando addirittura le coste dell’Africa. Zheng, tuttavia, non sottomise mai i popoli incontrati ne formò mai degli avamposti cinesi. L’ammiraglio si limitava a chiedere ai «barbari lontani» di inviare dei messi alla corte imperiale per prostrarsi di fronte al monarca. In questo modo essi ne avrebbero riconosciuto la sovranità «su tutto quello che è sotto il cielo» (tianxia).
3. Se è vero che la Cina non vuole un centimetro di suolo straniero, è anche vero che non rinuncia ai territori che reputa propri. La tutela della sovranità è una ragione «virtuosa», l’unica che legittima l’uso della forza. Per questo motivo - giungiamo al terzo punto - il Libro bianco afferma: «Non attaccheremo se non saremo attaccati, ma certamente attaccheremo se saremo attaccati. Seguendo questo principio la Cina prenderà risolutamente ogni misura necessaria per difendere la sovranità nazionale e l’integrità territoriale». Tuttavia, secondo la cultura strategica cinese, il concetto di difesa non si limita alla reazione a un’aggressione subita, ma comprende attacchi in stile «essenzialmente difensivo». In quest’ottica, per esempio, sono stati interpretati l’offensiva dell’esercito cinese nel 1979 contro il Vietnam (che aveva attaccato la Cambogia, alleata di Pechino), l’invasione del Tibet nel 1950 e le contese con l’India lungo la catena himalayana.
Alla medesima logica sono riconducibili le rivendicazioni del governo cinese sulle isole nel Mar Cinese Meridionale e Orientale contese con i vicini. Per Pechino controllare quegli arcipelaghi non significa solo acquisire il petrolio che giace nelle profondità marine circostanti, ma ottenere la massima estensione dei propri confini marittimi. Ora che gli Usa rafforzano i rapporti politico-economici con i tradizionali alleati orientali (trascurati negli ultimi anni a causa della lotta al terrorismo) e incrementano il numero di basi e di unità militari nella regione, Pechino sente in pericolo la propria sovranità su alcune aree strategiche. «Alcuni paesi hanno rafforzato le alleanze politico-militari ed esteso la propria presenza nell’area (del Mar Cinese, n.d.r.) rendendo la situazione più tesa», si legge nel Libro bianco. La proposta di Washington di risolvere le contese marittime con accordi multilaterali si traduce nel sostegno americano ai paesi con cui la Cina è in disputa, come Vietnam, Filippine, Brunei, Taiwan e Giappone. Non a caso nel Libro bianco si afferma che il governo di Tokyo, «provoca problemi riguardo le isole Diaoyu», volutamente non indicate anche con il nome nipponico Senkaku.
Una minaccia latente (e cronica) è quella delle forze indipendentiste taiwanesi, che «costituiscono il principale pericolo per le relazioni tra Pechino e Taipei». Il ritorno della «provincia ribelle» sotto la sovranità della Repubblica Popolare Cinese è un obiettivo al quale Pechino non intende rinunciare. Le relazioni sullo Stretto di Formosa sono notevolmente migliorate negli ultimi anni grazie alla crescente integrazione economica (nel 2012 lo scambio commerciale tra Cina e Taiwan ha raggiunto i l69 miliardi di dollari) e all’accondiscendenza del presidente taiwanese Ma Ying-jeou. Il governo di Pechino ha persino incluso nel piano autostradale nazionale 2013-30 la costruzione di due infrastrutture - non è chiaro se siano ponti o tunnel - che dovrebbero collegare l’isola alla terraferma (il progetto non è stato ancora approvato da Taipei).
4. Malgrado la crisi siriana e le altre turbolenze mediorientali, gli Usa sono ancora concentrati sul «perno asiatico». Ma Pechino non pensa solo a rispondere alla strategia americana. Sviluppando la going global policy (zounei shijie), l’Impero di Mezzo cura i suoi consolidati affari in Africa e sviluppa nuove opportunità d’investimento in Medio Oriente, Asia centrale e America Latina, giardino di casa statunitense. L’obiettivo principale è l’approvvigionamento di idrocarburi e di altre materie prime. Per questo Pechino non interviene negli affari interni degli altri paesi e costruisce per questi le infrastrutture necessario (si veda il progetto di un canale tra Pacifico e Atlantico in Nicaragua, alternativo a quello statunitense di Panama).
Ma la diplomazia degli affari non esclude un maggiore impegno sulla scena geopolitica internazionale. Per esempio, in occasione dei recenti viaggi quasi contemporanei del premier israeliano Netanyahu e del presidente palestinese Abu Mazen in Cina, Xi Jinping aveva presentato una proposta in quattro punti per risolvere la crisi israelo-palestinese: mossa solo simbolica con cui Pechino ha però rimarcato quanto la stabilità della regione sia importante per i suoi interessi. I leader cinesi non intendono affondare nelle sabbie mobili del Vicino Oriente come sta facendo Washington. Lo dimostrano la posizione defilata nella crisi siriana e, sul fronte centroasiatico, i recenti accordi raggiunti con Russia, Turkmenistan e Kirghizistan per incrementare l’approvvigionamento di gas.
Mentre gli Stati Uniti vogliono concentrare la propria attenzione su una particolare area geografica, l’Asia-Pacifico, la Cina individua molteplici aree d’intervento, più o meno importanti. I due approcci strategici possono essere compresi più agevolmente se paragonati alle tattiche utilizzate in due giochi da tavolo: gli scacchi e il weiqi. Il primo inscena una battaglia decisiva il cui scopo è dare scacco matto al re, cioè impedirgli ogni movimento. L’individuazione di un centro (il re) attorno al quale gravita la battaglia è in linea con la teoria del «centro di gravità» espressa dal generale prussiano Carl von Clausewitz nel classico Della guerra e con quella del «punto decisivo» del generale francese Antoine-Henri de Jomini. Il pivot to Asia statunitense esprime tale logica.
Assai diverso l’approccio del weiqi, o «gioco dell’accerchiamento», nato circa quattromila anni fa in Cina. Il tavolo da gioco, che rappresenta il mondo, è composto da una griglia di 19 righe orizzontali e 19 verticali. Secondo la filosofia daoista, le pedine nere e bianche, tutte di uguale forza e valore, simboleggiano lo yin e lo yang. Il weiqi rappresenta una campagna prolungata. I giocatori si scontrano in diverse battaglie. L’obiettivo è occupare più spazio possibile sulla tavola in modo da circondare le pedine avversarie. All’inizio, quando si tratta di studiare l’avversario, i giocatori esperti adottano tattiche conosciute, mentre nella fase finale si abbandonano alla creatività (figura).
Per vincere il giocatore stratega deve saper combattere su più fronti. Ciò richiede grande pazienza e flessibilità. Spesso, al termine della partita, le aree di dominio dei due avversari si sovrappongono e il margine di vantaggio dell’uno sull’altro è talmente sottile che è difficile stabilire chi abbia prevalso. Come se la vittoria fosse sempre relativa, mai assoluta. Le mosse del weiqi sono strettamente legate agli insegnamenti contenuti nell’Arte della guerra, capolavoro di strategia militare attribuito a Sunzi (il maestro Sun). Il testo risale al già citato Periodo dei regni combattenti, che oltre allo svilupparsi delle «cento scuole di pensiero» produsse i «sette classici militari» (wuqing qisbu). Tra questi il più conosciuto è l’opera del maestro Sun. Il weiqi si basa su uno dei suoi assunti più importanti (il quarto elemento chiave): la strategia migliore per vincere una guerra è far sì che il nemico non sia in grado di combatterla (buzhan ersbeng). Ciò non significa solo circondarlo militarmente, ma surclassarlo in ogni ambito, poiché la vittoria migliore è quella ottenuta senza combattere e la posizione migliore è quella che non causa - o meglio impedisce - il conflitto.
Per Sunzi quindi ogni fattore (clima, geografia, politica, diplomazia, spionaggio eccetera) è decisivo; ciascun elemento influenza l’altro. Lo stratega deve saper gestire tutte le dimensioni del conflitto e valutare il mutevole equilibrio delle forze così da volgerlo a proprio favore. Tale abilità è indicata con la parola shi che per Sunzi «è paragonabile al far rotolare rocce rotonde da una montagna alta mille joen».
Il tentativo di Pechino di riprendersi Taiwan è un esempio concreto di esercizio dello shi. La strategia della Repubblica Popolare non si basa infatti, solo sulla citata integrazione economica, ma anche sullo’sviluppo di un apparato militare così imponente da scoraggiare ogni aspirazione indipendentista di Taipei.
4. Le teorie filosofiche di Confucio e quelle militari di Sunzi sembrano completarsi. «Vincere senza combattere» diventa la chiave dello «sviluppo pacifico». Per questo motivo, afferma il Libro bianco, «costruire una difesa nazionale robusta poggiante su potenti Forze armate è una priorità strategica, necessaria per favorire la modernizzazione della Cina e garantirne lo sviluppo pacifico». Ostentando crescente fiducia nelle proprie Forze armate - e suggerendo l’abbandono forse definitivo della strategia del tao guang yang hui («evita la luce, coltiva l’oscurità») inaugurata da Deng Xiaoping alla fine degli anni Ottanta - il governo di Pechino ha deciso di descriverne per la prima volta la struttura. Secondo quanto riportato nel Libro bianco, l’Esercito di terra cinese conterebbe su 850 mila uomini, suddivisi in 18 corpi agli ordini di 7 comandi militari con base nelle città di Shenyang, Pechino, Lanzhou, Jinan, Nanchino, Guangzhou e Chengdu. La Marina ha 235 mila unità e 3 flotte (Beihai, Donhai e Nanhai). In più è dotata di una portaerei, la Liaoning, di fabbricazione sovietica, vendutale da Mosca nel 1998. L’Aviazione, invece, ha a disposizione 398 mila soldati.
La descrizione resta piuttosto superficiale e lascia parecchie zone d’ombra. Come nel caso della Seconda forza di artiglieria, nucleo duro della deterrenza strategica cinese, di cui si rivela solo la dotazione di missili balistici Dong Feng e Cruise Chang Jian. La capacità militare mandarina non è ancora paragonabile a quella statunitense, ma per gli Stati Uniti il potenziamento delle Forze armate cinesi è un campanello d’allarme. Basti pensare che il bilancio dedicato da Pechino alle spese militari è aumentato del 10,7% rispetto all’anno scorso (per un totale di 114 miliardi di dollari), mentre secondo l’Economist nel 2012 la spesa militare aggregata mondiale è diminuita dello 0,5% (circa 1.750 miliardi di dollari) e per la prima volta dal 1991 la fetta statunitense è scesa sotto il 40% della torta totale. Negli ultimi due anni la Cina ha investito nelle Forze armate più di ogni altro paese. Nessun altro esercito è cresciuto più rapidamente negli ultimi dieci anni. Pechino si concentra sul miglioramento dei cacciatorpedinieri, delle fregate per l’antipirateria, sul completamento della seconda portaerei (la prima made in China), sulla produzione di droni e sulla costruzione di un apparato di cyberspionaggio sempre più ramificato. Sforzi che ancora non sono sufficienti per difendere i propri interessi lontano dalla Cina.
Imbrigliati nella propria missione salvifica e nelle autoimposte linee rosse, gli Stati Uniti rischiano di non lasciare più il Medio Oriente. La Cina non può - perché non ha la capacità militare sufficiente - e soprattutto non vuole fare la stessa fine. Per questo, mentre auspica una soluzione pacifica alla crisi siriana, conduce una strategia globale. In ogni scenario possibile, a Pechino conviene che siano gli Usa a concentrarsi sul Medio Oriente, dimenticando l’ascesa cinese. Perché il gioco del weiqi richiede pazienza. E a Pechino non hanno fretta.