Omar S. Dahi, Limes 9/10/2013, 9 ottobre 2013
TUTTO CIO’ CHE I PETROLDOLLARI POSSONO COMPRARE
1. Nel 2011, quando il vento delle rivolte arabe spazzava Nordafrica e medio Oriente, erano in molti a chiedersi se i cittadini delle monarchie del Golfo avrebbero seguito l’esempio dei loro fratelli arabi, ribellandosi ai rispettivi sovrani. A far propendere per questa ipotesi era, in particolare, la rivolta scoppiata in Bahrein, che se rapportata all’esigua popolazione del regno può essere considerata a pieno titolo la maggiore ribellione della storia moderna. Due anni dopo, tuttavia, le monarchie del Golfo non solo appaiono immuni dal contagio rivoluzionario, ma sotto la guida dell’Arabia Saudita stanno emergendo come i principali aghi della bilancia in due aree chiave: il Levante e l’Egitto. Molto si è detto del ruolo giocato dalla frattura sunniti-sciiti e della rivalga irano-saudita, e di certo questi sono elementi importanti del puzzle. Tuttavia, per comprendere appieno il ruolo regionale e globale di Riyad occorre tener conto anche della sua cruciale collocazione nell’economia mondiale. Una storia che inizia un secolo fa.
L’incontro avvenuto il 14 febbraio 1945 a bordo della USS Quincy tra il presidente americano Franklin Delano Roosevelt e re ‘Abd al-’Aziz bin Sa’ud è stato oscurato negli annali dalla ben più nota conferenza di Jalta, conclusasi appena tre giorni prima, nella quale Roosevelt, Stalin e Churchill decisero l’assetto territoriale dell’Europa post-bellica. Eppure, forse nessun altro vertice tra due capi di Stato ha prodotto un impatto maggiore sulla traiettoria economica del XX secolo. Fu in quell’incontro bilaterale che vennero gettate la basi della «relazione speciale» tra Arabia Saudita e Stati Uniti, le cui coordinate di fondo restano a tutt’oggi sostanzialmente invariate.
Tale relazione era nata quasi per caso e si era andata sviluppando negli anni Trenta. Tra il 1820 e il 1916 il Regno Unito aveva assunto il controllo dei cosiddetti Stati della tregua (Abu Dhabi, Agmàn, Dubai, al-Sariqa, Umm al-Qaywayn, Ra’s al-Hayma, Dibà, Hamriyya, al-Fugayra, Kalba’) e di Bahrein, Oman, Kuwait e Qatar, siglando con essi dei patti in virtù dei quali i sovrani locali si legavano alla corona britannica e rinunciavano alla propria politica estera, vedendo in cambio riconosciuta e tutelata la loro sovranità. Intanto, grazie a un’aspra campagna di conquista, nel 1930 re Sa’ud controllava Nagd, al-Hasa (ad est), ‘Asir e Higaz (ad ovest), avendovi espulso gli hashemiti che in seguito e per periodi diversi avrebbero controllato Iraq, Siria e Giordania. Tuttavia, questo successo militare non si tradusse in un effettivo consolidamento e accentramento politico, dato che le risorse dello Stato erano minime e provenivano essenzialmente dal controllo delle rotte di pellegrinaggio per la Mecca. Tant’è che, anche dopo l’introduzione del rial, nel regno continuavano a circolare diverse valute, tra cui rupie indiane e sterline inglesi.
Questo era lo stato disastroso dell’economia locale quando il geologo Frank Holmes, il governo saudita e la californiana Standard Oil negoziarono la prima concessione petrolifera nella parte orientale del paese. Al tempo i britannici non vedevano grandi prospettive petrolifere in Arabia Saudita e la Standard Oil era una piccola società, in quanto tale non soggetta all’Accordo della linea rossa (1928) che proibiva prospezioni indipendenti nei territori dell’ex impero ottomano. L’accordo iniziale del 1933 prevedeva il pagamento anticipato di 35 mila sterline in oro per l’affitto dei terreni e per i diritti di sfruttamento; la concessione aveva una durata di 60 anni e si estendeva per 580 mila km. Nel 1938 la Standard Oil trovò il petrolio: da allora, la costruzione di infrastrutture subì un’accelerazione esponenziale, innescando un periodo di radicale trasformazione della società saudita dolorosamente raccontato dallo scrittore ‘Abd al-Rahman Munif nel suo magistrale romanzo storico Città di sale. In questa fase i lavoratori sauditi furono strappati al loro mondo tradizionale e sfruttati, ma il regno - al pari di altri Stati del Golfo - cominciò ad attrarre immigrati da Persia, Asia meridionale, Europa e Nordamerica, sebbene lo standard di vita delle varie nazionalità e il trattamento loro riservato dallo Stato e dalle compagnie petrolifere fossero radicalmente diversi.
È in questa fase che si vanno delineando molte caratteristiche strutturali dell’economia saudita, nonché il ruolo della petromonarchia nell’economia mondiale. Per prima cosa si formarono due sfere d’influenza nel Golfo Persico e nel Levante, dove Washington e Londra esercitavano la loro supremazia. Questo assetto durò fino alla guerra di Suez del 1956, quando gli Stati Uniti consolidarono definitivamente la loro egemonia e gli inglesi retrocessero al ruolo di junior partner. Da allora, l’America stabilì una partnership strategica con gli Stati del Golfo che, con alti e bassi, dura ancora.
In secondo luogo, si stabilì un modello di cooperazione tra le grandi compagnie petrolifere e i governi del Golfo che è al contempo armonioso e conflittuale. Questa relazione si è modificata nel tempo, in quanto le monarchie locali hanno faticosamente conquistato un maggior controllo delle loro risorse, dotandosi di capacità autonome. Ciò nonostante, gli Stati del Golfo non sono mai riusciti ad affrancarsi dalla dipendenza tecnologica, tecnica e manageriale dalle majors occidentali.
Terzo, si consolidò un modello economico basato sulla forte presenza dello Stato e peculiari relazioni tra le compagnie petrolifere e i lavoratori. Le vaste rendite petrolifere, a fronte di popolazioni relativamente esigue, hanno comportato una crescente dipendenza delle economie locali dalla forza lavoro importata, specializzata e non, ma anche la creazione di mercati del lavoro fortemente segmentati su base professionale, nazionale ed etnica.
2. Nella storiografia ufficiale saudita, queste vicende sono parte di quella che lo storico Robert Vitalis chiama l’autonarrazione dell’«eccezionalismo saudita», laddove grazie alla saggezza, alla sagacia e al talento strategico di re Sa’ùd il regno ha scongiurato il fato di altri paesi del Terzo Mondo e ha forgiato con le grandi potenze una relazione paritaria, piuttosto che un rapporto di dipendenza. Che si condivida o meno tale forma di autocompiacimento, è difficile negare l’unicità della vicenda saudita: il regno (al pari di altre monarchie del Golfo) è emerso come Stato moderno proprio nella fase in cui gli Stati Uniti si andavano trasformando in potenza egemonica e il petrolio diveniva la base dell’economia mondiale. Dato che quelli sauditi erano di gran lunga i giacimenti più grandi al mondo e che nel secondo dopoguerra Riyad divenne il principale alleato dell’America in Medio Oriente (insieme ad Israele e all’Iran dello scià), il regno venne a occupare una posizione centrale in diversi circuiti di scambio regionali e globali, divenendo così uno snodo centrale dell’economia globale.
A livello regionale, l’Arabia Saudita dovette fronteggiare l’ascesa del nazionalismo arabo come collante ideologico, politico o quantomeno culturale del mondo arabo; la nascita dello Stato d’Israele alle spese della popolazione palestinese, nel 1948; e la richiesta popolare di sviluppo economico e redistribuzione della ricchezza nei paesi arabi. Tali questioni politiche, culturali ed economiche finirono per plasmare il sistema regionale: nessuno Stato arabo potè eluderle, dal momento che riflettevano sentimenti profondi e diffusi.
Tuttavia, queste tendenze rappresentavano anche una minaccia per le élite saudite, che divenne particolarmente acuta con l’ascesa del nasserismo, con le sue istanze di redistribuzione della ricchezza, industrializzazione autarchica e rifiuto della tutela occidentale. La risposta dei Sa’ùd fu improntata alla cautela e a un abile equilibrismo: da una parte appoggiavano pubblicamente le correnti riformiste, dall’altra lavoravano per contrastare e invertire le tendenze nazionaliste laiche, progressiste e panarabe. Questi sforzi includevano il sostegno finanziario ai governi e ai movimenti progressisti della regione - nel tentativo di controllarli - e la parallela, lenta opera sotterranea di diffusione dell’estremismo wahhabita, con il sostegno alle correnti islamiste nel Golfo.
La presenza nel paese di numerosi lavoratori arabi immigrati faceva sì che le rimesse fungessero da ulteriore canale di diffusione del capitale saudita nel mondo arabo, insieme all’aiuto diretto e ai prestiti. Negli ultimi vent’anni, in particolare, il capitale saudita ha mondato la regione: il paese è divenuto la maggiore fonte di capitali arabi negli altri Stati del Golfo, investendo pesantemente nell’edilizia, nel settore bancario, nei mass media e nello sviluppo industriale dei suoi vicini. Il capitale haligi, com’è chiamato, è il risultato della crescente interconnessione finanziaria regionale attraverso il Consiglio di cooperazione del Golfo (Gcc), nel quale l’Arabia Saudita continua a svolgere un ruolo preponderante.
La posizione del paese nell’economia internazionale è altrettanto cruciale. L’iniziale concessione alla Standard Oil prevedeva la corresponsione di diritti di sfruttamento (royalties) da parte della società petrolifera, ma nel tempo le forze sociali del regno e di altri Stati esportatori divennero ostili a questo meccanismo, specie perché il prezzo concordato a cui le majors compravano il greggio estratto rimase pressoché costante, salendo di appena sei centesimi di dollaro tra il 1951 e il 1971. Quando, con l’avvento dell’Opec (l’Organizzazione dei paesi esportatori di petrolio), l’Arabia Saudita e altri produttori assunsero il controllo della produzione e dei prezzi, la rendita petrolifera esplose. Ciò consentì a Riyad di trattenere più ricchezza, ma la relazione strategica con le multinazionali del petrolio e con gli Stati Uniti non ne risultò sostanzialmente alterata.
Il ruolo giocato dall’investimento scriteriato dei petrodollari nella crisi debitoria degli anni Ottanta è noto, ma nel suo Capitalism and Class in the Arab Gulf Adam Hanieh sostiene che i tre pilastri del ruolo saudita nell’economia mondiale sono sopravvissuti a quella crisi, restando intatti nella successiva era neoliberale. Innanzi tutto, come negli anni Sessanta e Settanta, l’Arabia Saudita ha reinvestito i petrodollari in commesse industriali (sempre più di natura militare) all’Occidente, incluse quelle che hanno alimentato il massiccio boom edilizio di cui si sono avvantaggiate imprese europee e statunitensi.
Secondo, dopo raccordo segreto con gli Stati Uniti del 1974, Riyad si è impegnata a sostenere il valore del dollaro con massicci acquisti di titoli del Tesoro americano e usando della sua influenza in seno all’Opec per prevenire la diversificazione del paniere di valute in cui sono trattati gli scambi di greggio.
Terzo, massicce quantità di petrodollari - provenienti soprattutto da fondi sovrani basati nel Golfo - hanno inondato i mercati finanziari, azionari e del debito pubblico di Europa e Stati Uniti, alimentando bolle finanziarie e quel fiume di credito all’origine della Grande recessione.
3. Internamente, l’economia saudita è stata soggetta alla stessa alternanza di boom e recessioni che affligge tutte le economie basate sulla rendita. Quando i prezzi del petrolio erano alti, Riyad si imbarcava in mastodontici programmi edilizi, industriali e agricoli. Alla fine degli anni Duemila la monarchia lanciò uno dei più vasti piani d’investimento della sua storia, finalizzato a trasformare il regno in una potenza industriale entro il 2020 con progetti come Petro Rabigh, iniziato nel 2006 e costato da solo circa 10 miliardi di dollari.
Tali iniziative hanno certamente comportato uno sviluppo industriale, rendendo l’Arabia Saudita una presenza importante nei settori petrolchimico, dell’alluminio e dei fertilizzanti. Tuttavia, essendo queste produzioni basate sul petrolio (direttamente, come nel caso del petrolchimico e dei fertilizzanti; o indirettamente, come nel caso dell’industria metallurgica, altamente energivora), il risultato ultimo è quello di trattenere in patria il valore aggiunto del greggio. Si tratta di un risultato importante, ma che - malgrado i ripetuti e costosi tentativi - è ancora lungi dal configurare una reale diversificazione economica.
Ciò non fa presagire nulla di buono. La natura opaca e autoritaria del governo saudita, insieme all’assenza di statistiche affidabili su molti indicatori (incluse la povertà e la diseguaglianza), rendono difficile a studiosi e giornalisti condurre ricerche nel paese. Tuttavia, nel tempo gli sforzi in tal senso hanno consentito di delineare più chiaramente i contorni dell’economia saudita e il quadro che ne emerge non è rassicurante. A differenza di alcuni dei suoi più piccoli vicini e in barba allo stereotipo dell’Arabia felix, il regno fronteggia seri problemi di povertà e disoccupazione. Ciò nonostante, la manodopera straniera rappresenta circa il 90% della forza lavoro. Questa massa di lavoratori immigrati è altamente controllata e gestita mediante leggi che spogliano i lavoratori di molti diritti, lasciandoli alla mercé dei datori di lavoro che fanno loro da «sponsor», in base al sistema (Kafala) prevalente nel Golfo.
La contraddizione di un’economia ad alto tasso di disoccupazione autoctona, che nondimeno si regge in gran parte sulla manodopera immigrata, sfocia ciclicamente (in Arabia Saudita come altrove nel Golfo) in esplosioni di xenofobia e in iniziative come la legge nitaqàt, che impone di assumere un saudita ogni dieci stranieri e persegue duramente gli immigrati che restano nel paese dopo la scadenza del visto in assenza di occupazioni o sponsor alternativi. La legge ha palesato a milioni di immigrati lo spettro dell’espulsione coatta e in migliaia di casi tale misura è stata attuata, ma data la dipendenza strutturale dell’economia saudita dai lavoratori stranieri la norma appare concepita più a scopi propagandistici che per essere concretamente applicata.
I problemi nel campo dell’occupazione e dell’industria mostrano i limiti del potere statale. Di norma l’Arabia Saudita è considerata un caso da manuale di rentier state (Stato basato sulla rendita), cui si attribuisce un alto livello di autonomia del governo, alte diseguaglianze interne e bassi livelli di sviluppo istituzionale, dato che a prevalere sono le relazioni clientelari. Mentre quest’ultimo aspetto appare ben presente, la nozione di autonomia statale è stata contestata da vari studiosi, come Kiren Chaudry e Madàwi al-Rasid, i quali sostengono che in questi paesi il consolidamento del potere è ottenuto mediante alleanze vincolanti con forze sociali dalle quali le élite al governo non possono distanziarsi, risultandone così condizionate. Ciò implica che strette relazioni tra pubblico e privato non consentono un’efficace azione di governo, perché lo Stato non è in grado di disciplinare e sanzionare il settore non statale. La continua richiesta di lealtà in cambio di contratti, sussidi e altri benefici limita, piuttosto che espandere, lo spazio di manovra del governo.
4. In virtù di quanto sopra, di fronte al fermento della primavera araba Riyad ha adottato delle politiche di gestione della crisi attraverso la spesa, rese possibili dalle vaste riserve valutarie a sua disposizione. Tali politiche si sono concretizzate in vasti programmi di spesa pubblica all’indomani delle prime rivolte, la cui eco è giunta forte e chiara alle élite saudite. Inizialmente, queste hanno condannato con forza la rimozione di Ben Ali in Tunisia e di Mubarak in Egitto, ma da allora hanno assunto un atteggiamento molto più pragmatico. Dopo essersi fatta inizialmente scavalcare da Doha, Riyad ha ripreso l’iniziativa e ha sostenuto lo spodestamento di Muhammad Mursi, esponente dell’odiata Fratellanza musulmana; ha anche affrontato il dossier siriano, mettendosi alla testa degli sforzi di finanziamento e gestione dell’opposizione a Bassàr al-Asad in funzione anti-iraniana.
Oltre al denaro, un importante strumento a tal fine è l’esportazione di una retorica estremista antisciita da parte di mass media controllati o direttamente posseduti da esponenti della famiglia reale. L’odio settario - insieme all’Esercito - si è rivelato un importante strumento controrivoluzionario, perché ha consentito ai Sa’ùd di trasformare le iniziali istanze democratiche e libertarie in una battaglia tra sunniti e sciiti. Ciò risponde alla doppia esigenza di prevenire l’emergere nel mondo arabo di un «buon esempio» di rivoluzione e di intervenire militarmente a sedare le rivolte nel Golfo, come avvenuto in Bahrein.
Tuttavia, questa strategia ha dei limiti. In primo luogo, per quanto vaste le risorse del regno non sono infinite. La politica estera interventista di Riyad sta suscitando una crescente ostilità in vasti segmenti del mondo arabo, che hanno toccato con mano l’impatto negativo del coinvolgimento saudita sulle rivolte. Inoltre, il suddetto interventismo è visto con crescente fastidio dall’alleato statunitense: data l’ascesa (o il ritorno) di Cina e Russia, l’Arabia Saudita sta sondando nuove relazioni politiche ed economiche a livello internazionale, il che - insieme all’estremismo wahhabita, che larga parte ha giocato negli attentati dell’11 settembre 2001 - ha in parte incrinato il rapporto con Washington.
Terzo, il fermento interno non può essere sedato semplicemente comprando il consenso: ad ogni serio ostacolo, i Sa’ùd hanno fatto leva sulla spesa pubblica per placare o esportare le proprie crisi, invece di varare serie riforme politiche. Se non sarà in grado di affrontare il deficit democratico, istituzionale è umanitario e i problemi economici che l’affliggono, il regno saudita sarà prima o poi investito dal contagio rivoluzionario.
(Traduzione di Fabrizio Maronta)