Roberto Beretta, Avvenire 10/12/2013, 10 dicembre 2013
GALATEO, IL BON TON PER IL CLERO
A un capo della storia c’è Giovanni della Casa (che comunque era monsignore...): «Non si dee adunque l’uomo contentare di fare le cose buone, ma dee studiare di farlo anco leggiadre». Dall’altro fa bastian contrario un altro prete, don Lorenzo Milani: «L’educazione borghese non insegna il rispetto del prossimo, ma solo il rispetto degli appartenenti alla classe dominante»... E in mezzo a questi due opposti estremi si stendono 5 secoli in cui si è spesso considerato che «il prete ha ben altro spessore e tutt’altre preoccupazioni dell’etichetta e del bon ton», per cui della buona creanza del clero non si è occupato nessuno – o quasi. A torto? A ragione? Don Michele Garini, giovane presbitero della diocesi di Mantova, nella sua pur fresca esperienza qualche motivo deve averlo trovato, se ha pensato di vergare addirittura un Galateo per i preti e le loro comunità che esce ora per le Edizioni Messaggero di Padova (pp. 184, euro 13). Non un prontuario – precisa – per spiegare «quali posate usare per il pesce o come eseguire un impeccabile baciamano», bensì una serie di riflessioni pratiche e di consigli di vita spicciola ai confratelli, nella convinzione che «dallo stile con cui viene vissuta la quotidianità emerge molto di un’identità e di un ministero»; tanto che «dai modi con cui parliamo, abitiamo la casa, usiamo il nostro denaro, frequentiamo i locali pubblici, mangiamo e ci vestiamo» può dipendere – «nel bene e nel male» – molto della pastorale stessa.
Il simpatico don Garini sembra andare subito a bomba, iniziando proprio dal rapporto del prete coi soldi. Qui – sostiene – i reverendi dovrebbero andare in controtendenza rispetto al galateo classico, che impone di non parlare mai di denaro: per il sacerdote «che amministra in nome e per conto della comunità», invece, «la trasparenza è quasi obbligatoria. Troppo spesso le finanze parrocchiali (o diocesane) costituiscono agli occhi dei fedeli un misterioso enigma», mentre «i fedeli hanno il diritto di conoscere con una certa esattezza sia i bilanci sia l’ammontare delle retribuzioni clericali »; le critiche sulle ricchezze del clero «sono anche il frutto di tanti e troppi silenzi, di un falso pudore ad affrontare la dimensione economica della vita». Per questo anche il Consiglio per gli affari economici delle parrocchie «non può essere composto da yes-man supini alle decisioni presbiteriali e neppure deve avere un ruolo di ratifica formale di decisioni prese altrove».
Il bon ton sacerdotale, come si vede, ha già assunto spessore. Ma don Garini affronta poi il tema dell’abitazione, dove i modelli da evitare sono due: da una parte la canonica-bunker, dall’altra il porto di mare. Nella casa parrocchiale – osserva l’autore – «il prete non può sentirsi un ospite, ma deve vivere ’come a casa propria’ tenendo sempre presente di non essere a casa propria»; più in concreto, in ogni canonica dovrebbero esserci luoghi mantenuti privati (camera, cucina, salotto) e altri invece che facilitano gli incontri (ufficio, segreteria, sale riunioni). Anche gli arredi devono rifuggire sia dal lusso e dalla solennità che possono «favorire nel prete l’illusoria convinzione di prestigio sociale», sia dallo squallore di «un mobilio che sembra raccattato qua e là, senza il minimo gusto».
A tavola, poi, non bisogna farsi trascinare dall’abitudine: siccome i preti sono «maschi formati e cresciuti in un contesto non domestico, magari un po’ avanti con gli anni e avvezzi a vivere da soli », succede spesso che si lascino andare; «vi è chi non apparecchia neppure la tavola, mangiando in piedi, le suppellettili appaiono datate e scompagnate, le tovaglie e i tovaglioli logori e macchiati»... Questa poca cura si riflette poi nella salute, e anche sull’autostima del parroco. Ma c’è dell’altro in questa allergia presbiterale ai lavori domestici, come don Gerini acutamente annota: «Non vorrei che dietro alla disaffezione dei preti per pentole, stracci, scope e detergenti si nascondessero dei marcatori di status, quasi che le mani ’consacrate’ non debbano sporcarsi in simili occupazioni».
Siamo quindi all’abito, vexata quaestio per quanto riguarda i preti: talare, clergyman o vestito borghese? Don Garini consiglia moderazione: «Il prete deve sapersi anche spogliare dal proprio abito ecclesiastico, per evitare che diventi una corazza e non farne l’unica garanzia sicura della propria identità. Ma allo stesso modo deve sapersi vestire del proprio abito, senza vergogna o falsi pudori ». In tutt’e due i casi, comunque, servono gusto e decoro: «Guardando dall’alto una sala nella quale i preti sono riuniti, saltano agli occhi accostamenti improbabili, capi consunti o completamente fuori moda, taglie che non corrispondono... Trascuratezza e sciatteria», che si estende purtroppo al guardaroba liturgico delle sacristie.
Ma c’è un galateo anche per le nuove tecnologie; e qui il consiglio principale che il moderno Della Casa offre ai confratelli è non «utilizzare i media come riempitivi delle nostre giornate o come compagni con cui trascorrere il proprio tempo... Perché non virare su altre scelte, di sicuro più impegnative, ma capaci di dare contenuto e sapore al nostro tempo libero? Un libro, una rivista qualificata, un po’ di attività fisica, una visita a un amico»... Se invece si sceglie di andare al bar, al supermercato o al cinema, non bisogna cadere in due opposti comportamenti scorretti: la pretesa di essere riconosciuto come prete (magari per ottenere un trattamento privilegiato!) ovvero il tentativo di restare in incognito.
Il galateo sacerdotale si conclude con alcuni capitoli sull’atteggiamento da tenere nei confronti di alcune categorie di persone: le donne (prudenza, ma non rinunzia a un’amicizia sana), i bambini (con gli attuali casi di pedofilia cautela doppia: per esempio non fotografarli mai al mare o in piscina), il vescovo (evitare smancerie e formalità, pretendere un rapporto paterno), i confratelli. Insomma, alla fine don Garini elenca verità di semplice buon senso, e certo qualcuno riporrà il libretto con un gesto di sufficienza. Eppure, messe insieme, queste regolette suppongono un’attenzione umana e modi di fare così «diversi» che sarebbe impossibile osservarle senza un cambiamento di mentalità. E allora non sarebbe solo «educazione borghese».