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 2013  dicembre 10 Martedì calendario

GALATEO, IL BON TON PER IL CLERO

A un capo della storia c’è Giovanni della Casa (che comunque era monsignore...): «Non si dee adunque l’uomo contentare di fare le cose buone, ma dee studiare di farlo anco leggiadre». Dall’altro fa bastian contrario un altro prete, don Lorenzo Mi­lani: «L’educazione borghese non inse­gna il rispetto del prossimo, ma solo il rispetto degli ap­partenenti alla classe dominante»... E in mezzo a que­sti due opposti estremi si stendono 5 secoli in cui si è spesso considerato che «il prete ha ben altro spessore e tutt’altre preoccupazioni dell’etichetta e del bon ton», per cui della buona creanza del clero non si è occupa­to nessuno – o quasi. A torto? A ragione? Don Michele Garini, giovane pre­sbitero della diocesi di Mantova, nella sua pur fresca e­sperienza qualche motivo deve averlo trovato, se ha pensato di vergare addirittura un Galateo per i preti e le loro co­munità che esce ora per le Edi­zioni Messaggero di Padova (pp. 184, euro 13). Non un prontuario – precisa – per spie­gare «quali posate usare per il pesce o come eseguire un im­peccabile baciamano», bensì una serie di riflessioni pratiche e di consigli di vita spicciola ai confratelli, nella con­vinzione che «dallo stile con cui viene vissuta la quoti­dianità emerge molto di un’identità e di un ministero»; tanto che «dai modi con cui parliamo, abitiamo la ca­sa, usiamo il nostro denaro, frequentiamo i locali pub­blici, mangiamo e ci vestiamo» può dipendere – «nel bene e nel male» – molto della pastorale stessa.
Il simpatico don Garini sembra andare subito a bom­ba, iniziando proprio dal rapporto del prete coi soldi. Qui – sostiene – i reverendi dovrebbero andare in con­trotendenza rispetto al galateo classico, che impone di non parlare mai di denaro: per il sacerdote «che am­ministra in nome e per conto della comunità», invece, «la trasparenza è quasi obbligatoria. Troppo spesso le finanze parrocchiali (o diocesane) costituiscono agli occhi dei fedeli un misterioso enigma», mentre «i fe­deli hanno il diritto di conoscere con una certa esattezza sia i bilanci sia l’ammontare delle retribuzioni clerica­li »; le critiche sulle ricchezze del clero «sono anche il frut­to di tanti e troppi silenzi, di un falso pudore ad af­frontare la dimensione economica della vita». Per que­sto anche il Consiglio per gli affari economici delle par­rocchie «non può essere composto da yes-man supini alle decisioni presbiteriali e neppure deve avere un ruo­lo di ratifica formale di decisioni prese altrove».
Il bon ton sacerdotale, come si vede, ha già assunto spessore. Ma don Garini affronta poi il tema dell’abi­tazione, dove i modelli da evitare sono due: da una par­te la canonica-bunker, dall’altra il porto di mare. Nella casa parrocchiale – osserva l’autore – «il prete non può sentirsi un ospite, ma deve vivere ’come a casa propria’ tenendo sempre presente di non essere a casa propria»; più in concreto, in ogni canonica dovrebbero esserci luoghi mantenuti privati (camera, cucina, salotto) e al­tri invece che facilitano gli incontri (ufficio, segreteria, sale riunioni). Anche gli arredi devono rifuggire sia dal lusso e dalla solennità che possono «favorire nel prete l’illusoria convinzione di prestigio sociale», sia dallo squallore di «un mobilio che sembra raccattato qua e là, senza il minimo gusto».
A tavola, poi, non bisogna farsi trascinare dall’abitudi­ne: siccome i preti sono «maschi formati e cresciuti in un contesto non domestico, magari un po’ avanti con gli anni e avvezzi a vivere da so­li », succede spesso che si lasci­no andare; «vi è chi non appa­recchia neppure la tavola, man­giando in piedi, le suppellettili appaiono datate e scompa­gnate, le tovaglie e i tovaglioli logori e macchiati»... Questa poca cura si riflette poi nella sa­lute, e anche sull’autostima del parroco. Ma c’è dell’altro in questa allergia presbiterale ai lavori domestici, come don Gerini acutamente anno­ta: «Non vorrei che dietro alla disaffezione dei preti per pentole, stracci, scope e detergenti si nascondessero dei marcatori di status, quasi che le mani ’consacrate’ non debbano sporcarsi in simili occupazioni».
Siamo quindi all’abito, vexata quaestio per quanto ri­guarda i preti: talare, clergyman o vestito borghese? Don Garini consiglia moderazione: «Il prete deve sa­persi anche spogliare dal proprio abito ecclesiastico, per evitare che diventi una corazza e non farne l’unica garanzia sicura della propria i­dentità. Ma allo stesso modo deve sapersi vestire del proprio abito, senza vergogna o falsi pu­dori ». In tutt’e due i casi, co­munque, servono gusto e de­coro: «Guardando dall’alto una sala nella quale i preti sono riu­niti, saltano agli occhi accosta­menti improbabili, capi con­sunti o completamente fuori moda, taglie che non corri­spondono... Trascuratezza e sciatteria», che si estende pur­troppo al guardaroba liturgico delle sacristie.
Ma c’è un galateo anche per le nuove tecnologie; e qui il con­siglio principale che il moderno Della Casa offre ai confratelli è non «utilizzare i media come riempitivi delle nostre giornate o come compagni con cui tra­scorrere il proprio tempo... Per­ché non virare su altre scelte, di sicuro più impegnative, ma ca­paci di dare contenuto e sapo­re al nostro tempo libero? Un libro, una rivista qualifi­cata, un po’ di attività fisica, una visita a un amico»... Se invece si sceglie di andare al bar, al supermercato o al cinema, non bisogna cadere in due opposti compor­tamenti scorretti: la pretesa di essere riconosciuto co­me prete (magari per ottenere un trattamento privile­giato!) ovvero il tentativo di restare in incognito.
Il galateo sacerdotale si conclude con alcuni capitoli sull’atteggiamento da tenere nei confronti di alcune categorie di persone: le donne (prudenza, ma non ri­nunzia a un’amicizia sana), i bambini (con gli attuali casi di pedofilia cautela doppia: per esempio non fo­tografarli mai al mare o in piscina), il vescovo (evitare smancerie e formalità, pretendere un rapporto pater­no), i confratelli. Insomma, alla fine don Garini elenca verità di semplice buon senso, e certo qualcuno riporrà il libretto con un gesto di sufficienza. Eppure, messe in­sieme, queste regolette suppongono un’attenzione u­mana e modi di fare così «diversi» che sarebbe impos­sibile osservarle senza un cambiamento di mentalità. E allora non sarebbe solo «educazione borghese».