Mario Lavia, http://www.donneuropa.it/cultura-e-spettacoli/2013/12/10/tradurre-proust-ventanni-rendere-memorabile-il-incipit-piu-noto/, 10 dicembre 2013
Ancora ragazza, si imbattè in Marcel Proust. Nella Torino di Natalia Ginzburg – la Torino borghese, colta, antifascista e dunque molto simil-parigina – la Recherche piombò con il peso delle sue migliaia di pagine e la funzione cruciale di rappresentare il punto di raccordo letterario fra l’Ottocento e il Novecento
Ancora ragazza, si imbattè in Marcel Proust. Nella Torino di Natalia Ginzburg – la Torino borghese, colta, antifascista e dunque molto simil-parigina – la Recherche piombò con il peso delle sue migliaia di pagine e la funzione cruciale di rappresentare il punto di raccordo letterario fra l’Ottocento e il Novecento. A quel tempo, il romanzo proustiano veniva soprattutto letto come si leggevano i classici ottocenteschi, come un Balzac più moderno, e non si era in grado di interpretarlo alla luce delle acquisizioni novecentesche, la psicanalisi, la distinzione dei “piani” narrativi, le sfasature temporali. Comunque nel “giro” Einaudi si comprese subito di essere di fronte a qualcosa di enorme. Raccontò molti anni dopo lei stessa: “Nel ’37, Leone Ginzburg e Giulio Einaudi mi proposero di tradurre À la recherche du temps perdu. Accettai. Era folle propormelo e folle fu da parte mia accettare. Fu anche, da parte mia, un atto di estrema superbia. Avevo vent’anni”. In effetti, fu un’impresa. Ci sono delle frasi di Proust abbastanza oscure, quando non addirittura incomprensibili, dei nessi fra un periodo e l’altro totalmente sfuggenti, dei vocaboli desueti, neologismi, paragoni, doppi sensi, congiuntivi difficilissimi, gergo popolare o arci-aristocratico, sconosciuti riferimenti letterari e misteriose allusioni filosofiche, geografiche, di araldica o pittura e quant’altro che anche il più esperto di lingua francese (e Natalia forse non era nemmeno tra questi) rischia di impazzire. Più tardi lei disse così: “Imparai allora che cosa significa tradurre: quel lavoro di formica e di cavallo che è una traduzione. Quel lavoro che deve combinare la minuziosità della formica e l’impeto del cavallo”. E non si sa se sia più difficile fare la formica o il cavallo. Ci mise anni per tradurre il primo volume dei sette che compongono la Recherche, cioè La strada di Swann (titolo che è già un’innovazione forzata di Du côté de chez Swann). Poi anche a causa delle peripezie della guerra perse lo scritto, lo ritrovò anni dopo, e finalmente nel 1946 Einaudi ce l’aveva, quel prezioso primo volume. In tutto, Natalia aveva impiegato otto anni. Siccome Proust è uno dei o pochi scrittori che se ti cattura ti accompagna per tutta la vita, quando scrisse Lessico famigliare la Ginzburg non potè fare a meno di disseminarvi alcune reminiscenze proustiane seppellite nel ricordo dell’infanzia, proprio come in Proust accade al Narratore. “Terni era un biologo, e mio padre ne aveva, riguardo agli studi, una grande stima. Quando Terni veniva a trovarci, si fermava in genere, nel giardino con noi, a parlare di romanzi; era colto, aveva letto tutti i romanzi moderni e fu il primo a portare in casa nostra la Recherche du temps perdu. Credo anzi, ripensandoci, che cercasse di rassomigliare a Swann, con quella caramella, e col vezzo di scoprire in ciascuno di noi parentele con quadri famosi”. Ecco dunque finzione e realtà mescolarsi – Swann e Terni che gli rassomiglia – esattamente come nel romanzo – dove Swann è almeno in parte il reale Charles Haas. Ecco dunque Proust che entra nella vita e nella letteratura di Natalia. E un po’ dopo (ora è un ricordo di adolescente): “Cos’ha Terni con Mario e Paola da cinciottare?- diceva mio padre a mia madre. – Parleranno di Proust, – gli diceva mia madre. Mia madre aveva letto Proust, e lei pure, come Terni e la Paola, lo amava moltissimo; e raccontò a mio padre chi era, questo Proust (…)”. Ma non basta. Ecco poi la madre esclamare: “La petite phrase! Com’è bello quando dice della petite phrase!», cioè la romantica frase musicale che unisce i cuori di Swann e di Odette: come accade spesso agli innamorati alla ricerca di codici misteriosi per gli altri, loro due hanno una “loro” frase musicale. E ancora un ultimo riferimento: “La Paola era innamorata di un suo compagno d’università; giovane, piccolo, delicato, gentile, con la voce suadente. Facevano insieme passeggiate sul lungo Po, e nei giardini del Valentino; e parlavano di Proust, essendo quel giovane un proustiano fervente: anzi era il primo che avesse scritto di Proust in Italia”. Dove c’è un errore, a proposito di quel “primo che avesse scritto di Proust in Italia” ma non importa, né ai fini del nostro articolo né in generale, l’importante è cogliere quell’attimo elettrico e devoto tipico dei proustiani verso il loro scrittore e che nella frase citata si avverte in quel “parlare di Proust” tante volte dai più declinato a vezzo snobistico e che invece qui identifica, un delizia in sé. Ma fu brava, Natalia, a tradurre La Strada di Swann? Senz’altro il proustologo di professione troverà diversi errori, una buona parte dei quali inevitabili per tutto quello che si diceva prima – l’enorme difficoltà del testo – e poi, settanta anni dopo, anche per il fatto che la nostra lingua, il nostro “sentire” la letteratura, sono cambiati. Prendiamo la primissima frase, uno dei più famosi incipit della letteratura mondiale, l’immortale “Longtemps, je me suis couché de bonne heure” che apre sinfonicamente le migliaia di pagine del gran romanzo. Che differenza c’è fra “Per molto tempo, mi son coricato presto la sera” e “A lungo, mi sono coricato di buonora”? La prima traduzione è quella della Ginzburg. La seconda è del poeta Giovanni Raboni che tradusse tutta l’opera, molto anni dopo, per i Meridiani Mondadori. E se quest’ultima è considerata più compatta e forse anche più fedele allo spirito dello scrittore francese – insomma, è meglio – ci sono pochi dubbi sul fatto che l’incipit della Ginzburg sia più bello dell’altro. È molto più poetico, evocativo. E più rigoroso. Perchè contiene la parola-chiave di tutta l’opera – “tempo” – che fra l’altro è la stessa parola che dopo cinquemila pagine chiude l’opera. Non si sa per quale ragione Raboni, che peraltro, e giustamente, teorizzò che il traduttore deve “dar conto” dello spirito dell’autore, senza tradirlo magari a beneficio della propria (del traduttore) soggettività, preferì un più freddo “a lungo”. Sull’incipit, almeno, aveva ragione la “formica”: questo ci ha regalato Natalia Ginzburg, e non è poco.