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 2013  dicembre 09 Lunedì calendario

LA LUNGA SCALATA DEL BOY SCOUT DIVENTATO LEADER


È arrivato. La vittoria di Renzi ha il rumore silenzioso della fine di una corsa. Le proporzioni e l’affluenza sono più chiassose, e vestono il ragazzo dei panni del padrone, che indosserà senza turbamento.
È la data nuova del calendario del centrosinistra in questo Paese: è un’idea che qualche anno fa si è indurita nella testa di Renzi: e solo sua. Condivisa a spallate più a sentimento. Quell’idea ha aggregato prima i cittadini e poi i dirigenti, così da connaturare il rapporto di Renzi con la politica come una convocazione del consenso.

È una “purezza” che resta vincente, un bancomat che Renzi può spendere e incassare. È vero, adesso il carro è affollato, sono saliti gli avversari della prima e della seconda ora: la forza crescente di Renzi li ha costretti alla quintana dell’imbarazzo, «sto con Renzi ma..., sto con Renzi se...».
«Alla guida del partito (segretario provinciale dei Popolari, ndr) ci sono finito per cooptazione, ma ho capito subito che i tempi stavano cambiando, che serviva un modello diverso, nuovo». Era il 1999, Renzi aveva 24 anni, un’età scolare e una biografia già alimentata, che ha saputo poi raccontare bene. Nato a Rignano sull’Arno, figlio di cattolici (lui stesso è praticante), da bambino è stato scout: «Nell’Agesci ho afferrato il senso civico». Appassionato di calcio, ma «giocatore modesto», ha scelto di stare in campo nel ruolo “unico” dell’arbitro, e a 17 anni bazzicava i campi della seconda categoria. Lo ha ricordato in un’intervista a Gramellini, per La Stampa: «Da arbitro ho imparato a decidere senza rinviare, assumendomi le responsabilità. Poi, ho imparato anche i mille modi di offendere una mamma o una fidanzata». Avvinto dalle parole, a 19 anni ne ha tratto profitto, vincendo 47 milioni (di lire) alla Ruota della fortuna, campione per quattro puntate: «Alla quinta avrei portato a casa altri 50 milioni. Invece sbagliai l’ultima definizione: un mare di neve. Dissi: un mare di navi. Mi ha fregato una vocale».
La laurea in Giurisprudenza, la politica come eredità (il padre è stato consigliere della sinistra Dc, «poi mi sono autorottamato perché c’è spazio solo per Matteo»). La politica intorno, da sempre. Fosse questo, e basta, sarebbe la storia di un «pollo da batteria» (e un giorno così lo descrisse Sergio Staino). Eppure il suo messaggio è sempre stato urgente, innovativo più che nuovo. È sfuggito alle categorie storiche, liberandosi di qualsiasi etichetta. Motteggiando con una frase di Dag Hammarskjöld, il diplomatico svedese segretario generale delle Nazioni Unite, morto “in carica” nel 1961 in un incidente aereo: «Al passato grazie, al futuro sì». Si è detto del suo cattolicesimo, ai tempi del Liceo teneva sermoni sulla castità, eppure Avvenire lo attacca perché nel suo discorso pubblico non è centrale la famiglia, e nella Carta di Firenze (il primo manifesto dei “rottamatori”), si cercavano le coppie di fatto, i nuovi diritti. È il terreno più faticoso per Renzi, ma se da sinistra lo pungono, da destra lo considerano laico, e questo può bastare. E le cose che doveva dire le ha dette, anzi, le ha riassunte con la solita efficacia, pescando nell’enciclopedia delle citazioni: «Alla fine non ti chiederanno quanto sei stato credente, ma quanto sei stato credibile» (è di Rosario Livatino, il giudice-ragazzino, ucciso dalla mafia 23 anni fa).
Eravamo arrivati alla carica di segretario provinciale dei Popolari. Cinque anni dopo venne il passaggio “protetto” verso la Provincia. Allora era nel solco di Lapo Pistelli. Scrissero insieme un libro-dialogo (Ma le giubbe rosse non uccisero Aldo Moro) con passaggi che avrebbero dovuto avvertire il candidato sindaco in pectore (Pistelli, bruciato proprio da Renzi): «Voi politici siete maestri nel non farvi capire, nell’esprimervi con discorsi fumosi e inconcludenti», rimproverava Jonas (nella finzione faceva la parte di Renzi) a Lorenzo, giovane parlamentare (Pistelli, appunto). La comunicazione era già il tarlo, il modo, il verso per dare vigore alla sua idea. Aveva il traguardo in testa, non lo vedeva vicino ma lo vedeva davanti. «Se ci arrivo, è per cambiare le cose».
Lo scout ha esplorato i nuovi media. Internet e tutte le propaggini, non sempre battute con la stessa intensità, ma cercate per raggiungere un pubblico più ampio. Ovvio che è un’indagine lontana e distante da un certo modo di “fare” politica. Ovvio che è imposto un linguaggio rarefatto, appuntito, una ricerca ossessiva dell’effetto che taglia in due le sottigliezze delle politica. Che infastidisce la Curia del centrosinistra. Ma i nuovi media contraggono il mondo: questo fanno i tweet, o facebook: avvicinano alla gente. Non è stato l’unico politico a crederci, lui era predisposto, era pronto, era vivo, e si può dire senza adulazione: intelligente. Sempre da questa parte del campo, anche Vendola ha cercato un eloquio diverso. Una retorica forbita, emotiva, visionaria rivolta agli esclusi (drammaticamente e definitivamente esclusi). Mentre Renzi era più diretto, più prosaico, e diretto agli inclusi, magari delusi, magari distratti. Ma dentro il sistema e possibili protagonisti in questa natività.
Nel frattempo ha scritto altri sette libri, una produzione eccessiva che ha scandito la sua scalata. Ma non è questo il posto per pesare il valore della comunicazione di Renzi. Ha scelto di polarizzare: essere amato, essere detestato. È l’unico atteggiamento che mediaticamente premia, e in un caso o nell’altro, porta seguito. E comunque non è nemmeno più il tempo per questionare sulla semina. È tempo del raccolto. È un tempo lungo, cominciato nel 2008 quando si butta nella mischia delle primarie per la candidatura a sindaco di Firenze, spezzando la successione prevista dalle gerarchie (Pistelli al posto di Domenici). Allora rottamava: questa parola lo ha accompagnato, manifestato, costretto. L’antagonismo ai vecchi dirigenti ha infiammato l’elettorato fiorentino, annoiato dalla nomeniklatura, esasperato dalla diradazione della fecilità e dell’accesso pubblico. Poi si è diffuso perché ammiccava un testacoda a una società ammorbata dal malessere. Sembrava (o meglio: così veniva confinato) un petulante intruso nel gioco, e oggi siamo qui, al 70%, un rapporto sano con il consenso, con la polpa della politica verso i cittadini, una possibilità di vittoria. E la rottamazione è una brutta parola sparita dal discorso.