Antonio Armano, Il Fatto Quotidiano 7/12/2013, 7 dicembre 2013
JOYCE E I SUOI INEDITI GIOCHI DI PAROLE
Qualche tempo fa su Facebook lo scrittore Simone Sarasso diceva: sto leggendo l’Ulisse e “spacca il culo” a tanti altri libroni anche recenti. È vero e non bisogna farsi impressionare dalla cattiva fama di mattone. Piuttosto godersi anche solo alcune parti. Come quando Leopold Bloom, al-l’inizio del suo viaggio nella quotidianità, fa colazione col rognone trifolato, va al cesso e fa una bella cagata, con degli stronzi della dimensione perfetta per non disturbare il deflusso, leggendo un racconto premiato su un giornale . Infine si pulisce col racconto stesso. Pagine geniali, innovative, in un inglese comprensibilissimo, che potete leggere nella versione di Gianni Celati, edita da Einaudi, l’ultima delle traduzioni apparse dopo la scadenza dei diritti d’autore per i settant’anni della morte di Joyce. Pubblicato nel ‘22 l’Ulisse in poche copie a Parigi, Joyce si dedica a un’opera che farà carne di porco della difficoltà di lettura della precedente: Finnegans Wake. Se l’Ulisse si svolge durante una intera giornata, Finnegans Wake si svolge durante una veglia (wake appunto) funebre ed è infinitamente più onirico, oscuro. Se già è improbo per un madrelingua, tradurlo appare folle e – s e-condo qualcuno – inutile. Come un Gadda in ideogrammi cinesi. Meglio che niente. O meglio niente?
DOMANDE confinate nei circuiti dei cultori joyciani. Finché l’editore Gallucci, specializzato in libri per bambini, ha lanciato, in dirittura natalizia, Finn’s Hotel. Illustrato da Casey Sorrow, ben curato graficamente, ha avuto buona stampa, e reca un titolo accattivante e vacanziero. Si presenta come una raccolta di brevi racconti inediti sulla mitologia irlandese nei quali Joyce fa le prove del suo definitivo monumento letterario . Monumento funebre, secondo il fratello, per il quale Finnegans Wake è “l’ultimo delirio della letteratura prima della sua estinzione” .
Questi raccontini risultano meno ardui, quantitativamente parlando, ma fatti con gli stessi ingredienti e difficili da superare con “brevi, allegri e accorti balzi” come illude la quarta di copertina. Qui capiscono tutti: “Perché lui nella vita aveva una e una sola massima: se mettiamo il caso una signora si prendeva di libidine per un tocco di formaggio stilton e lui, sputacaso, si ritrova un etto se non più di gorgonzola bello fettuntorello in tasca, beh non faceva altro che metter mano alla saccoccia e darle, scusa tanfo, la formaggella”. Altri risultano meno penetrabili, come Eccoquì convenir Hominognuno: “Per l’osso sacro, la stizza del nostro rosso frate d’Acquazzonia sfonderebbe i timpani se sapesse che abbiamo messo in mano il baliato a un casellante ma intanto, bontà sua, forfecchia eccome!”. Il traduttore Ottavio Fatica rende onore al cognome, riesce a volgere certi giochi linguistici, ma in traduzione il delirio di idiomi, fonemi, registri stilistici, perde forse ragione di essere. Come vedere in una scatola smontata i trucchi del mago o, chessò, un monologo di Bergonzoni in georgiano. Comunque qualcuno godrà della strenna per filologi, finita sotto l’albero nelle librerie natalizie, con l’innocente aria di libretto sul folklore irlandese, quasi per bambini. Le vie di Joyce sono infinite. Forse Gadda ha cominciato così.