Francesco Guerrera, La Stampa 9/12/2013, 9 dicembre 2013
SE IL BITCOIN FA LA GUERRA AL DOLLARO
Satoshi Nakamoto contro lo Zio Sam. La nuova guerra delle monete sembra un incontro di wrestling tra due «atleti» ciccioni con nomi di battaglia.
Ma il conflitto tra bitcoin, la moneta «virtuale» creata dal misteriosissimo Nakamoto, e il dollaro non è finto come i match di Hulk Hogan. Per la prima volta in molti decenni, la moneta americana deve far fronte a un rivale piccolo ma astuto. Un rivale non forte ma agile e, soprattutto, diverso dai soliti concorrenti. Se veramente fosse un match della World Wrestling Federation, i due combattenti si dovrebbero chiamare Davide e Golia.
Bitcoin è la moneta che c’è ma non si vede. Non la si può toccare, metterla nel portafoglio, rigirarsela nelle tasche e, come si faceva una volta, morderla per vedere se è vera.
I dieci miliardi di dollari di bitcoin in circolazione «vivono» solo negli hard-drive di super-computer che li ottengono risolvendo complesse equazioni matematiche – un processo chiamato «mining». Si possono spendere quasi solamente in rete – come mi ha detto un mio amico appassionato del fenomeno, «il vero rischio di Bitcoin non è la frode è la fame».
E, a differenza di quasi tutte le altre monete del mondo, non sono emessi da una banca centrale. Bitcoin esiste perché creata per osmosi dai suoi utenti ed ha valore solo quando viene venduta e comprata in «mercati» dedicati solamente a queste transazioni. Come se non bastasse, nessuno sa chi sia Satoshi Nakamoto – o se sia lo pseudonimo di una persona o di un gruppo.
Viste le circostanze, non è facile prendere i bitcoin sul serio. Una «moneta» che non è coniata ma «minata», da un gruppo di nerd senza né arte né parte sembra peggio dei soldi del Monopoli.
Con il Monopoli, la moneta virtuale condivide un’altra caratteristica: il pericolo di andare in prigione. Negli ultimi mesi, le autorità americane hanno chiuso uno dei mercati più importanti di bitcoin perché sospettavano il riciclaggio di denaro sporco. Proprio questa settimana, il governo cinese e quello francese hanno dato l’allarme, parlando sia del rischio di frode che del pericolo che il bitcoin sia una bolla finanziaria enorme.
Poche ore dopo le dichiarazioni del governo di Pechino, Baidu, il gigante dell’internet cinese ha smesso di accettare bitcoin come pagamento su uno dei suoi siti.
Gli scettici non hanno tutti i torti: al suo arrivo nel 2009, un bitcoin valeva un dollaro, questa settimana una di queste monetine virtuali passava di mano per 1200 (mille e duecento) dollari – un salto enorme, quasi ridicolo, che ricorda famose bolle del passato come quella dei tulipani olandesi del ’600.
L’annuncio di Baidu ha fatto calare il valore di bitcoin intorno ai 900 dollari, un prezzo che rimane comunque altissimo.
Nonostante ciò, nonostante il fatto che l’anonimità della moneta sia perfetta per i criminali di internet, che la crescita esponenziale nel valore dei bitcoin faccia veramente paura, milioni di persone passano ore ed ore a «minarla» e un numero sempre più alto di negozi virtuali e reali – da grandi magazzini ai piccoli bar in Ohio e Utah – la accettano.
In parte, questo è dovuto al fatto che bitcoin ha alcune caratteristiche delle monete di vecchia scuola. Quella più importante è che il suo universo non è infinito. In questo momento, ci sono dodici milioni di bitcoin «in circolazione» ma il numero massimo di bitcoin che può essere «minato» è intorno ai ventuno milioni. E’ un fattore fondamentale che permette a bitcoin di mantenere un valore minimo e di funzionare come una moneta «vera».
Ma per spiegare il fenomeno-bitcoin, le lenti del passato funzionano solo fino ad un certo punto. Come diceva la pubblicità della Pepsi, bitcoin potrebbe essere la moneta della nuova generazione. E’ la moneta che ci meritiamo in un mondo che sta diventando sempre più virtuale. Ed è la moneta che riflette il pessimismo collettivo ed individuale in istituzioni quali i governi e le banche centrali.
Non è normale che una moneta «finta» e, diciamocelo, quasi comica diventi così popolare in meno di cinque anni. Così popolare che persino Ben Bernanke, il capo della Federal Reserve, che come mestiere stampa dollari, ha dovuto ammettere i meriti del bitcoin. E che la Bank of America – sì la banca che prende il nome dal continente – l’ha analizzata come se fosse lo yen o l’euro, concludendo che il suo valore intrinseco e’ intorno ai 1300 (mille e trecento) dollari.
Se ci potessimo specchiare in una delle sue monete, vedremmo un mondo che non si fida più delle strutture politiche ed economiche degli ultimi 70 anni.
Un economista che conosco ha parlato della «fine dell’innocenza» causata dalla crisi del 2008 e del 2009 . E’ certo vero che quello shock ha danneggiato la reputazione di banche e signori del denaro.
Ma per me c’è di più. L’aspetto forse più innovativo del bitcoin – e delle tante imitazioni che stanno emergendo su internet – è la sua promessa di anarchia. Una moneta fuori dagli schemi, come i No Logo o i ragazzi di Occupy Wall Street. Un grido di protesta contro il «sistema».
È giustificato? Vale la pena smantellare istituzioni che tengono insieme l’economia mondiale e che hanno prodotto risultati tangibili per buttarsi nel «nuovo» e nel «virtuale»?
Questa è una domanda che vale miliardi di dollari (o forse di bitcoin…). Per il momento non c’è risposta. Possiamo solo guardare la sfida tra Satoshi Nakamoto e lo Zio Sam e chiederci se siamo in mezzo ad una partita di Monopoli o all’inizio di una rivoluzione.
Francesco Guerrera
è il caporedattore finanziario
del Wall Street Journal a New York. francesco.guerrera@wsj.com
e su Twitter: @guerreraf72.