Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2013  dicembre 09 Lunedì calendario

MA QUANTO COSTA DAVVERO UN VESTITO LOW COST?


Quanto costa un vestito? Domanda indiscreta, alla quale nella moda raramente si risponde. Perché rivelerebbe il meccanismo dei prezzi che raddoppiano a ogni passaggio da produzione a distribuzione alla vendita. Il prezzo esorbitante, e a volte impossibile, del prêt-à-porter contribuisce però ad alimentare quell’alone di esclusività e di pregio, che lo circonda e viene bene espresso dalla definizione di «alta moda pronta». Anche per questo la diffusione del fast fashion, cominciata in sordina negli anni ’80, con i suoi prezzi a prova di qualsiasi portafoglio e l’assortimento continuamente rinnovato, si è rivelata inarrestabile, democratizzando l’accesso ai consumi di moda.
Ma è proprio il successo dei marchi low cost, che polarizzano l’attenzione di tutte le fasce sociali in questo mutato contesto economico, a rendere urgente questa domanda: quanto costa un abito? E la ricerca di prezzi minimi, comprensibile in una stagione di crisi, non finisce per diventare una specie di tagliola in cui alla fine qualcuno resta imprigionato? Il Sole 24 Ore elenca le tariffe di quel gigante produttivo che sono le aziende cinesi di Prato, dalle quali esce un milione di capi al giorno. Una giacca a tre bottoni costa 2,30 euro di cucitura, 80 centesimi di stiratura, 30 centesimi di taglio, 45 centesimi di bottoni, ai quali vanno aggiunti i 50 centesimi di guadagno del confezionista. Prezzo totale: 4 euro e 35. Il costo di un paio di pantaloni arriva a 3 euro e 20. A questo si aggiunge il prezzo della stoffa, speso importata dalla Cina, a 50 centesimi di euro al metro, contro i 5 euro delle stoffe prodotte a Prato, distretto del tessile noto un tempo per le sperimentazioni sui tessuti fantasia.
Il declino della città e della sua imprenditoria ha favorito la nascita di un settore parallelo dell’abbigliamento di moda, davanti alla cui illegalità, diventata un modello vincente, le autorità locali e lo Stato hanno girato la testa dall’altra parte. Anche se Valeria Fedeli, vicepresidente Pd del Senato, per molti anni alla guida dei tessili della Cgil e del sindacato europeo di categoria, ricorda che qualche anno fa i tessili della Cgil promossero «un confronto a Prato, che si concluse con un’intesa sulla collaborazione tra istituzioni locali, forze dell’ordine, sindacati e associazioni imprenditoriali per contrastare i capannoni illegali e favorire l’emersione del nero». Qualcosa non ha funzionato e il rogo di Teresa Moda l’ha evidenziato drammaticamente. Abiti Puliti (Clean Clothes Campaign), che si impegna per assicurare il rispetto dei diritti fondamentali dei lavoratori attraverso la pressione sulle imprese e sui governi e la mobilitazione dei consumatori, spiega che senza la tracciabilità della filiera è quasi impossibile intervenire. Nel tempo i gruppi di acquisto solidale hanno comunque messo a punto alcune strategie, dalla collaborazione con piccole e medie aziende e con gli artigiani per avviare progetti rispettosi dei diritti umani e dell’ambiente, all’acquisto di abbigliamento prodotto e distribuito dai gruppi d’acquisto solidali. Soluzione alternativa, rimettere in circolazione gli abiti usati. Però, si sa che da Mani Tese e al mercato di Via Arena che l’Asa, l’associazione per la lotta all’Aids, tiene a Milano per due giorni al mese, non si parla di vintage.