Antonio Gnoli, la Repubblica 8/12/2013, 8 dicembre 2013
INGE FELTRINELLI – “DA HEMINGWAY A GRASS, ECCO IL MIO NOVECENTO PERÒ NON MI SONO MAI RITENUTA UN’INTELLETTUALE”
Mentre sono sul treno veloce che mi riporta a Roma, e che avrà ahimè un ritardo di tre ore e mezza, mi consolo sfogliando il grande libro che Inge Feltrinelli ha dedicato al suo lavoro di fotoreporter. È un’edizione tedesca. Me ne ha fatto dono dopo il lungo incontro che abbiamo avuto nella sua casa milanese. In copertina c’è lei, poco più che ventenne, aggrappata a un esemplare di marlin. Accanto, Ernest Hemingway che alla pesca dedicò forse più passione che ai romanzi. Entrambi sembrano aderire alla circostanza dei rispettivi ruoli. Ernest forse vorrebbe ridere ma non ce la fa. E Inge, che invece ride, forse vorrebbe essere seria. Perché dopotutto quel grande pesce è lì a rappresentare la propria fine e il trionfo altrui: la striatura di sangue, l’occhio vitreo, la rigidità simile a quella di un metallo, convergono in un punto irreale, in cui anche l’odore del mare sembra sospendersi. «Quando feci quella foto con l’autoscatto Ernest era già sull’orlo di un cambiamento psichico e fisico», commenta Inge, che allora si firmava Schönthal, il nome del padre: un ebreo tedesco che dalla Germania fuggì a New York.
Cosa ricorda di quegli anni?
«A quali si riferisce?».
A lei bambina. I nazisti al potere. Suo padre e sua madre...
«I miei divorziarono. Mio padre riparò in America e mia madre sposò un ufficiale di cavalleria. Come mezza ebrea non potevo accedere al liceo. A 14 anni si stava aprendo uno spaventoso baratro davanti ai miei piedi. Ma fui fortunata. Il mio patrigno mi protesse. Cambiai il nome da Schönthal in Heberling; ripresi la scuola, a Gottinga, una specie di Oxford tedesca. Sì, gli anni della guerra non furono per me così duri. Almeno non quanto quelli dell’immediato dopoguerra».
Cosa accadde?
«Il disastro. La Germania era un cumulo di rovine: distruzione, fame, disoccupazione e disperazione. Il patrigno morì nel 1950, lasciando mia madre con due figli piccoli e me. Capii che avrei dovuto guadagnare soldi. Gottinga non offriva opportunità, mi trasferii ad Amburgo al seguito di una fotografa che mi propose di fare l’assistente. Fu così che nacque il mio rapporto con la fotografia. Due anni di gavetta, una collaborazione alla rivista Constanze e poi l’incredibile fortuna di incontrare Ernest Hemingway. Ma prima...».
Prima?
«Ci fu quell’incredibile foto che scattai a Greta Garbo, mentre ferma a un semaforo sulla Madison Avenue, probabilmente raffreddata, stava per soffiarsi il naso. Vendetti quello scatto, la mia prima foto, alla rivista Life, per 50 dollari. Era il 1952. Poi arrivò Hemingway ».
Come si realizzò il vostro incontro?
«Grazie all’editore Ernst Rowohlt, che aveva pubblicato tutti i suoi libri. In quel periodo Hemingway viveva a Cuba. Giunsi all’Avana e aspettai un po’ prima che il «papa» mi ricevesse. Mi restavano pochissimi soldi e quando in una tarda mattinata mi telefonò, avevo quasi persa del tutto la speranza di incontrarlo. Mi disse che avrebbe mandato una macchina a prendermi. Gli risposi che preferivo arrivare con un autobus. Il viaggio durò un paio d’ore. C’era caldo. Eppure, mi sembrava di stare in una cella frigorifera».
Era emozionata?
«Ero nervosa e in totale subbuglio. Lui invece mi sembrò di pessimo umore. Credo che avesse fatto un’uscita con una barca ma che non si fosse divertito. Mi invitò al bar. Andava sempre al Foridita. Arrivammo in pieno pomeriggio. Si sedette al bancone e ordinò un daiquiri. A un certo punto fecero il loro ingresso dei ragazzi, malmessi e senza scarpe. Ernest tirò fuori delle monete e le lasciò cadere sul pavimento. Erano per loro. Trovai la scena umiliante e glielo dissi. Mi sembrava il gesto frutto del peggior colonialismo».
E lui?
«Mi ignorò, continuando a bere. Solo la sera tardi, rivolgendosi mi pare alla moglie Mary, commentò l’accaduto. Disse che la giovane tedesca era un po’ troppo nazista per i suoi gusti. Decisi che al mattino seguente me ne sarei andata. Alle sei, era già sveglio, seduto nel soggiorno. Lo salutai. Mi guardò e disse: “Stalin is dead”. È morto? Feci io. Sì, e ora cambierà il mondo, aggiunse. Era il 5 marzo 1953. Per due ore tentò di farmi una lezione di politica sull’importanza di quel vecchio dittatore. Fu così che le tensioni svanirono e restai con lui per due settimane, scattando foto che avrebbero fatto il giro del mondo».
Che grado di familiarità si stabilì fra voi?
«Mi sta chiedendo se abbiamo fatto del sesso?».
Beh, lei molto bella, lui grande scrittore.
«Ero lì per lavoro. E mi sentivo la classica brava ragazza tedesca. Poi mi piaceva Mary, sua moglie, che aveva finito col sacrificare la professione di giornalista, dedicandosi a quest’uomo pieno di problemi e spesso ubriaco».
Quanto spesso?
«Quasi sempre. L’alcol serviva a tenere lontani i fantasmi della sua depressione. Cosa la generasse non lo so. Si era accorto che il suo mondo era finito. Aveva partecipato alla prima guerra mondiale e al conflitto spagnolo. Aveva scritto romanzi e racconti memorabili. Era celebre. Ma tutto ciò non era servito a metterlo in pace con la sua mente. Era una creatura complessa, distorta, fragile. Averla incontrata ha, però, cambiato la mia vita».
Quelle foto furono il successo.
«Fu un passaporto per tutte le celebrità successive che conobbi. A cominciare da Picasso, che fotografai nella sua villa non lontana da Cannes, e poi Chagall, in Costa Azzurra; Gerard Philippe, con il quale viaggiammo nella mia Volkswagen; Leonor Fini che viveva in una bellissima casa parigina, lei lesbica, con due gay; e sempre a Parigi andai a trovare Simone de Beauvoir. Mi intrattenne con i suoi meravigliosi discorsi sulla Cina da cui era appena tornata; e poi Ivy Nicholson, che era stata una modella bellissima, adorata da Andy Warhol. Viveva a Roma. La incontrai in via Margutta. Non sapevo allora che si sarebbe persa e che la bellezza da sola non ti difende».
E la sua bellezza le è servita?
«Aiuta, eccome. Ma senza determinazione, intelligenza, rigore, ti trasforma solo in un oggetto del desiderio».
Come avvenne che conobbe Giangiacomo Feltrinelli?
«Fu Rowohlt, sempre lui, a invitarmi a una festa. Ero appena tornata dall’Africa. Mi telefonò: domani faremo un cocktail per l’editore che ha pubblicato Il dottor Zivago. Chi sarebbe? Chiesi. Un italiano, miliardario e comunista, dobbiamo divertirlo».
Che anno era?
«Il 14 luglio 1958. Stirai il mio unico vestito decente, e con la Volkswagen giunsi in gran ritardo fuori di Amburgo. La festa era praticamente finita. Quelli rimasti parlavano di vacanze. Vidi Giangiacomo solo, un po’ sperduto, con un bicchiere e una sigaretta in mano. Mi avvicinai parlandogli in inglese. Mi rispose con un perfetto tedesco. Alla fine lo accompagnai in albergo».
E cosa accadde?
«Arrivammo davanti all’hotel. C’era un po’ di imbarazzo. Scendemmo dalla macchina e lui fece segno di andarci a sedere su una panchina davanti a un laghetto. Restammo lì per l’intera notte a parlare».
Di cosa parlaste?
«Di tutto: di politica, di viaggi, dei miei amici scrittori. Mi chiese cosa pensassi della Germania, gli risposi che la consideravo noiosa».
Si candidava a lasciarla?
«La verità è che in quel momento avrei voluto vivere a New York; avrei voluto prendere la cittadinanza americana. Ma quando avevo raggiunto mio padre capii che non era possibile. Si era risposato e la moglie, per qualche motivo che ignoro, impedì che diventassi americana».
Torniamo a Feltrinelli. Che impressione ebbe da quel primo incontro?
«Di un uomo strano. Con un vissuto interiore ricchissimo. Non era il classico miliardario stravagante. Era semplice e apparentemente senza bisogni. Non si vestiva bene, comunque non in modo ricercato; girava con una vecchia Citroën. Aveva avuto un’infanzia abbastanza orrenda, come poteva esserla per un bambino troppo ricco».
A cosa allude?
«Fu lasciato solo, immensamente solo. I suoi amici li ebbe tra i giardinieri e il personale di servizio. Gente umile che preparò la sua visione del mondo. E che fu rafforzata dal suo rapporto con il partito comunista».
Come fu quella relazione?
«Tormentata, tra ubbidienza al partito e trasgressione. La verità è che per un certo periodo il Pci fu per Giangiacomo la famiglia che non aveva mai avuto. E che lui finanziò generosamente. Ma poi, quando pubblicò Il dottor Zivago si accorse che era una famiglia molto dispotica e se ne allontanò».
Non crede che in quell’allontanamento ci fossero anche le premesse a una sua radicalizzazione politica?
«La politica era per lui soprattutto un fatto affettivo. Un modo per riempire le voragini che l’infanzia gli aveva scavato. Non aveva familiarità col mondo, non era scaltro. Era ingenuo, naïf, disposto a pensare che bastava volerlo perché si potesse migliorare il mondo ».
Come visse il suo estremismo e poi la morte tragica?
«Con rabbia. E con angoscia. Non capiva più niente della realtà. Si sentiva assediato dalle forze del male. Secondo le sue informazioni era imminente un colpo di Stato di destra e lui voleva salvare il paese, organizzando la resistenza. Si era rinchiuso in una specie di carcere mentale».
I vostri rapporti com’erano?
«Privatamente un disastro. Non stavamo più insieme. C’era naturalmente Carlo, nostro figlio, che lui adorava sopra ogni cosa. Ma la nostra relazione era finita. Lui se ne era andato di casa, lasciandomi la vice presidenza della casa editrice. Credo che la frase più giusta su Giangiacomo l’abbia espressa Gian Piero Brega, che fu il nostro editor: è morto per la sua tormentata coerenza».
Cosa ritiene abbia dato a Feltrinelli?
«Siamo stati profondamente innamorati. È difficile fare un conto. Per un po’ gli ho portato un ritmo diverso nella vita. Era abituato a donne che facevano valigie complicate. Mentre io ho sempre viaggiato leggera. Prima di me fu sposato due volte. Dopo di me si sposò una quarta volta. Buffa questa sua vocazione al matrimonio ».
Un bisogno di istituzione?
«Chissà. Forse di protezione femminile».
E lei?
«Io cosa?».
Si è rifatta una vita?
«Ho trovato un nuovo compagno: Tomás Maldonado. Da più di quarant’anni stiamo insieme. Non viviamo nella stessa casa. E questo crea un piacere nuovo ogni volta che ci vediamo. Gli dico sempre che noi siamo sposati al nostro lavoro. Un paio di domeniche fa era al mio compleanno. È una persona bellissima. Ogni tanto gli ricordo che lui è il serio e io la frivola».
Frivola?
«Sì, non mi sono mai sentita un intellettuale. Ne ho incrociati parecchi. Leggo tantissimo. Ma non sono una riflessiva. Poco tedesca, in fondo».
Com’è il rapporto con la sua terra?
«Detesto i tedeschi, ma amo i miei amici tedeschi».
Cosa non le piace?
«Sono noiosi, pesanti, pedanti, diffidenti, gelosi. Poco simpatici. Però efficienti. Sanno come si lavora e quando vedono che in busta paga ci sono dieci euro di meno si deprimono».
Anche da noi non scherziamo.
«Lo so e so anche che oggi parlare di soldi è molto difficile. Ma io sono stata e continuo ad essere felice in Italia. Ho avuto una vita bellissima, pur nei suoi lati drammatici. Ho avuto amici, storie, e una qualità della vita incredibilmente alta».
Si sente una privilegiata?
«Come potrei non esserlo? Ho conosciuto tutto e tutti. Poche settimane fa ho rivisto Günter Grass a Francoforte. Ha presentato il mio libro di fotografie. Ho sentito una grande tenerezza per questo vecchio Genosse, compagno. L’altro giorno mi ha chiamato Nadine Gordimer invitandomi alla festa dei suoi 90 anni. Le ho detto con rammarico che non potevo muovermi perché è iniziata l’era degli acciacchi».
Cosa pensa della vecchiaia?
«Ci vuole una grande fantasia per allontanarla e una joie de vivre non indifferente. Sono ottimista e non ne ho una vera paura».
Meglio la vita da fotoreporter o quella da editore?
«Sono state due esperienze confinanti. Della fotografia penso che non sia importante la sua perfezione tecnica ma la coincidenza tra ciò che hai dentro e quello che realizzi con lo scatto. Quanto all’editoria è cambiata. Oggi c’è più tecnologia e specializzazione. Una volta un editore riassumeva in sé molti ruoli: cassiere, psicoanalista, badante, segretario, amico e seduttore. Era questo che lo scrittore cercava. Oggi non saprei. Ma ad ognuno il proprio tempo».