Paolo Russo, La Stampa 8/12/2013, 8 dicembre 2013
“INEFFICIENTI E FONTE DI SPRECHI” 175 OSPEDALI A RISCHIO CHIUSURA
Al ministero della Salute, la lista c’è già. Se Regioni e governo daranno il via libera, per i piccoli ospedali con meno di 120 posti letto, inseriti nel nuovo Patto per la salute, sarà l’ora di chiudere i battenti. Magari per essere riconvertiti in quelle strutture per la riabilitazione o per le lungodegenze che scarseggiano.
Da venti anni leggi finanziarie, decreti e persino piani regionali ne cantano il de profundis ma loro sono ancora lì, in 175 a rappresentare altrettanti monumenti allo spreco. Perché non c’è esperto in sanità che non dica quanto siano inutili, costosi e insicuri, visto che mancano di servizi di emergenza e apparecchiature in grado di affrontare i casi di una qualche complessità. E poi quasi sempre lavorano «sotto giri», ossia quei pochi posti letto vedono pure pochi pazienti. Che equivale a dire scarsa esperienza sul campo e quindi più facilità nell’inciampare in errori. Basti pensare che ci sono nosocomi con 15-20 posti letto utilizzati anche meno di 3 giorni su 10. Per non parlare del personale. Se si mette a confronto il tasso di utilizzo reale dei pochi posti a disposizione e il numero di chi ci lavora si scopre che intorno a un letto in media si affaccendano sette, otto tra medici e infermieri.
Un inno allo sperpero che è tutto nell’elenco stilato dal ministero della Salute, dove assicurano che la parola fine agli ospedaletti dello spreco verrà apposta in via definitiva dal Patto per la salute, che il ministro Lorenzin vorrebbe siglare con le Regioni prima di Natale, per poi inviarlo in Gazzetta sotto forma di decreto. La lista in realtà sarebbe di 222 mini-nosocomi con meno di 120 posti letto, ma tra questi andranno salvati: i servizi psichiatrici di diagnosi e cura, che in realtà ospedali non sono; gli istituti di ricovero e cura a carattere scientifico, perché fanno ricerca; i centri per “post acuti”, che servono per chi dopo un ricovero non è in grado di tornare a casa ma ha bisogno di cure meno intensive. Alla fine si arriva alla lista di 175 ospedaletti (per un totale di oltre 12 mila posti letto), tra i quali figurano anche alcuni collocati in zone disagiate. Isole o montagne. Dove però, dicono i tecnici del ministero, è più economico e sicuro mettere un servizio di soccorso in eliporto che tenere su un intero ospedale. Peccato che però ogni qual volta si prova a chiuderne uno è tutto un alzare barricate. Con in testa sindaci e qualche volta parroci.
Così dopo vent’anni dal primo tentativo di chiusura dell’allora ministro della Sanità, Raffaele Costa, ad aver effettivamente sbaraccato sono poco più di un centinaio. Mentre resistono paradossi come l’ospedale di Acquapendente, con i suoi 8 posti letto e con 130 tra medici e infermieri fino al 2010. Oppure l’Ospedale di Leno, provincia di Brescia, 16 letti e 68 dipendenti sempre nel 2010. Ultimo anno per il quale è possibile rilevare informazioni dalla banca dati del dicastero della salute. Esempi che mostrano come gli ospedaletti siano una realtà diffusa tanto al Nord che al Sud. Certo, la parte del leone la fa la Sicilia, con 37 mini-ospedali, ma la Lombardia la segue a ruota con 31, mentre più distaccate sono la Campania, con 19, il Lazio con 16 e la Sardegna con 14. Pochi gli ospedaletti in Veneto e Piemonte, rispettivamente 4 e 5.
Sulla loro chiusura i camici bianchi si dividono. «Nelle zone disagiate vanno mantenuti dei presidi sanitari, magari non ospedali veri e propri ma servizi con caratteriste utili a quella popolazione sì», è il parere di Costantino Troise, segretario nazionale del sindacato dei medici ospedalieri Anaao. Che è però favorevole alla riconversione dei mini ospedali vicino ai grandi nosocomi. «Gli ospedaletti rappresentano un pericolo per i cittadini e persino per chi ci lavora, perché non hanno specialisti, strumentazioni e casistica sufficienti ad operare in sicurezza», taglia invece corto Massimo Cozza, segretario nazionale della Cgil medici. «Se si viene ricoverati per un problema serio - spiega - si rischia di dover essere trasferiti in un altro ospedale, con una dilatazione dei tempi di intervento a volte decisiva per la stessa vita». «Però – conclude - attenzione alla deospedalizzazione selvaggia perché le chiusure devono essere accompagnate dal contestuale potenziamento dei servizi territoriali».
(ha collaborato Roberta Scazzocchio)