Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2013  dicembre 08 Domenica calendario

L’ONDA CHE MEZZO SECOLO FA CAMBIÒ PER SEMPRE L’ITALIA


C’erano nel loro viaggio il sole e la nebbia, fame e pazienza, resa e sfida, precarietà e speranza. Respiravano due vite insieme gli emigranti che negli Anni ‘50 e ‘60 salivano al Nord (altri muovevano verso Lombardia e Piemonte dal Triveneto) portando miseria e dignità in valigie e grandi pacchi chiusi con le corde. La Torino della Fiat era una delle stazioni più calde di arrivi nell’Italia di un boom economico, il «miracolo», che aveva messo casa soltanto lassù lasciando al Meridione echi di richiamo.
Il «miracolo» cominciò a svanire nel 1963, cinquant’anni fa. E il 1963 è uno dei confini temporali di ricerche, statistiche, analisi su milioni di vite partite dalle campagne scolpite da Rocco Scotellaro, il poeta di Tricarico che leggeva il cuore della società contadina e al quale, come a cementare un legame, fu dedicata una delle vie torinesi dell’edilizia popolare. Che è stato di ciascuna di quelle esistenze ancorate al passato e tese al domani, colte dai fotografi in un presente che conteneva entrambi, ai binari, ai finestrini dei convogli, nelle roulotte fatte abitazione, nei cortili di ballatoio, all’uscita dalla fabbrica, nei condomini delle periferie e tra le mura fatiscenti di antichi borghi, a caccia di lavoro in metropoli spaventate dall’onda dei «napoli» (tutti i meridionali erano «napoli», che in piemontese si pronuncia «napuli»).
La città dei Santi sociali era percorsa dalla diffidenza e questa tracimava nel razzismo. Negli annunci matrimoniali si cercava «giovane settentrionale». Nella rubrica «Posta NORD/SUD», creata dalla Stampa negli Anni 60, l’operaio di Foggia piangeva l’umiliazione per il rifiuto del suo amore: «Meglio zitella che sposa a un terrone». Quella pagina di giornale cuciva un epistolario pubblico - in luogo della lettera privata - con i parenti rimasti giù: «Si guadagna per il necessario, ma i bambini crescono con mentalità più aperta e disinvolta».
Sui portoni apparivano gli impietosi cartelli «non si affitta a meridionali», colpevoli di entrare in due e poi ospitare parenti e altri parenti ancora, in cerca d’un lavoro nell’industria, nell’indotto, nei cantieri edili dove corregionali mettevano in piedi il racket delle braccia. Gli immigrati dal Sud erano imprigionati nel racconto beffardo di chi giurava d’aver visto vasche da bagno trasformate in orti di ceramica, terra al posto dei saponi: i «napoli» puzzano, si diceva, perché per ricreare un frammento di radici non hanno dove lavarsi tutti interi. Verità è che tanti - meno fortunati di chi accedeva alle case popolari create dalla Fiat già negli Anni 50 - nemmeno avevano una vasca e una doccia, stretti, come oggi gli extracomunitari, nelle brande affiancate in soffitte marce da voraci razzisti che guadagnavano e disprezzavano, guadagnavano e umiliavano.
Eppure l’integrazione maturava. La donnetta torinese con stupore ai cronisti diceva dei vicini: «Vengono da giù, MA sono brave persone». In osteria calabresi o siciliani si facevano tradurre i versi di Roberto Balocco: il musicologo e chansonnier cantava l’arrivo dei «marziani», che facevano bip bip e a ogni bip davano al mondo un «cit», un figlio. Prolifici padri sorridevano orgogliosi di veder musicata con ironia benevola la loro virilità.
L’immigrazione a Milano e Torino era nel cinema - «Rocco e i suoi fratelli» di Luchino Visconti ispirato ai racconti de «Il ponte della Ghisolfa» di Giovanni Testori, più avanti «Trevico-Torino» di Ettore Scola, sceneggiato dal giornalista e futuro sindaco Diego Novelli - e cronisti lungimiranti scrutavano sotto le notizie di giornata, infilavano i taccuini nell’immensità del partire e reinventarsi. I fotografi rapivano storie e anime da volti, occhi, gesti, fiancate dei vagoni: sopravvivenza, paura, tenacia, crimine, gelosia, coltelli così come riscatto sociale, futuro edificato con pervicacia per i figli, i «cit» dei marziani, che sarebbero andati all’Università e per intanto dai prati guardavano i casermoni, stupefatti e un po’ fuori luogo come l’inurbato Marcovaldo raccontato da Italo Calvino nel 1963.
Erano un emblema le stazioni come Porta Nuova, binario 18, dove scendevano il diciottenne che fino a ieri aveva «gridato il ghiaccio» nella calura delle ripide vie di paese o la innamorante «Maria con due labbra di corallo» e «due occhi grandi così» cantata da Bruno Lauzi, al quale rispondeva Sergio Endrigo: «Il treno che viene dal Sud / non porta soltanto Marie/ con le labbra di corallo». Alle banchine di quello che gioiosamente le Ferrovie avevano battezzato Treno del Sole Endrigo incontrava «sudore e mille valigie / uomini cupi che hanno in tasca la speranza». E sulla bocca un «ciao amore» come quello di Luigi Tenco. Erano i giovani di queste foto, vite in viaggio in pianeti nuovi, dove ricreare la sera i capannelli di paese rimettendo in ordine i pezzi di ieri e costruendo domani, legandoli con un filo indistruttibile e invisibile a tutti, non ai fotografi.