Andrea Bonzi, l’Unità 8/12/2013, 8 dicembre 2013
PARMALAT DIECI ANNI DOPO LA LEZIONE NON È SERVITA
Chi può dimenticare il Natale di dieci anni fa a Collecchio? Non lo dimenticheranno i lavoratori e le lavoratrici della Parmalat, protagonisti di uno dei salvataggi aziendali più importanti della storia italiana. Il 19 dicembre di quell’anno, infatti, Bank of America svela il bluff ordito dal patron Calisto Tanzi e dalla sua cerchia, e certifica quasi 4 miliardi di euro di buco della multinazionale del latte. Alla fine i debiti ammonteranno a 14 miliardi. Una voragine, uno scandalo capace di travolgere una delle poche multinazionali italiane che dava lavoro a circa 3500 dipendenti solo nel nostro Paese, controllando 130 società nel mondo, con oltre 32mila addetti.
Anni di bilanci falsificati, conti correnti inesistenti, acquisizioni spericolate per quella che è stata definita «la più grossa fabbrica di debito della storia economica europea», capace di mettere sul lastrico decine di migliaia di risparmiatori. L’ex padrone Tanzi, ormai 75enne, è stato condannato in via definitiva a un anno e 8 mesi per aggiotaggio, a 18 anni in appello per bancarotta fraudolenta in relazione al crac Parmalat e ad altri 9 anni in secondo grado per Parmatour. Altri 13 imputati tra manager e dirigenti sono stati condannati in appello. Tanzi ora è agli arresti domiciliari in regime ospedaliero, al Maggiore di Parma, in considerazione delle sue precarie condizioni di salute. A metà novembre ha patteggiato 8 mesi per le opere d’arte nascoste alla Finanza in uno scantinato: quadri di Ligabue, Manet, Kandinskij, Picasso, Van Gogh, tra gli altri, che l’imprenditore cercava di preservare dal crac. Quadri che la Parma-bene giurava di non aver mai visto.
IL MERITO DEI DIPENDENTI
Ma se Parmalat – passata nel 2011 ai francesi di Lactalis, con un’operazione che ha alimentato scontri e polemiche – è rimasta in piedi, è merito degli uomini e delle donne che vi lavorano e non hanno mai ceduto. Già, perché quel 19 dicembre, la reazione al crac vide una coesione sociale forse irripetibile tra sindacati, operai, impiegati e il management passato indenne dagli arresti. Un patto costruito in anni di relazioni sindacali, rispettose dei reciproci ruoli. «Quella mattina, il primo sentimento fu lo sconforto – racconta Enrico Barbuti, delegato Cgil nelle Rsu –, il giorno dopo rischiavamo di trovare i cancelli chiusi. La filiera del latte è delicata, le scorte durano per due o tre giorni al massimo, e di fronte alla notizia del crac i fornitori potevano scegliere di portare il prodotto altrove». L’idea di fare sciopero o manifestare («Contro chi, poi?» si chiesero in molti) fu subito accantonata. Il primo obiettivo era quello di non interrompere la produzione e continuare a portare i marchi Parmalat sugli scaffali. «Quando arrivava una cisterna carica, i colleghi che la vedevano entrare dall’ingresso applaudivano», ricorda Barbuti. Sono giornate frenetiche, raccontate nel libro “Il miracolo del latte” di Marco Severo, edito da Ediesse e promosso dalla Flai Cgil.
«Mi sono trovato a fare contemporaneamente il sindacalista, il venditore e l’assistente sociale – ricorda Antonio Mattioli, all’epoca segretario Flai di Parma, oggi dell’Emilia-Romagna –. Organizzammo squadre di delegati per la stampa, il messaggio da portare ai consumatori era: Parmalat è una società industrialmente sana». Tanto che le parole di Mattioli, «se qualcuno pensa che la Parmalat sia finita è fuori come un balcone», fecero il giro del mondo. I turni di lavoro senza sosta (il ciclo è continuo, anche di notte, e spesso nei week-end), il circo dei media che non sempre aiutava a distinguere fra la colossale truffa a danno dei risparmiatori e la necessaria difesa di oltre 30mila posti di lavoro in tutto il mondo, l’affollata assemblea del 30 dicembre nella saletta Cral di fronte all’azienda. «La gente piangeva, e tutti ti guardavano come quello che doveva dar loro risposte, ma non sapevi se le risposte che avevi sarebbero bastate – aggiunge Mattioli –, poi col tempo andò meglio». Almeno fino alla morte di Alessandro Bassi, un impiegato-quadro che si tolse la vita il 23 gennaio 2004. Non era indagato, ma il clima in azienda tra perquisizioni e interrogatori pressoché giornalieri era pesante, e Alessandro, probabilmente, non resse.
Mentre a livello nazionale fu approntata la cosiddetta legge Marzano, a livello locale, il tavolo con le istituzioni, sindaco Giuseppe Romanini in testa, forniva un punto di supporto alle parti sociali, risolvendo problemi concreti come l’approvvigionamento di detergente per lavare le macchine. E poi c’era il commissario Enrico Bondi. Era già in azienda come consulente dal 9 dicembre, poi salì ai vertici dopo il passo indietro di Tanzi, il 15 dicembre, e infine fu scelto come commissario straordinario. «Il primo impatto fu quello del tagliatore di teste venuto lì per spezzare le reni ai lavoratori – dice Mattioli –. Era molto franco, diretto, e condivise con noi l’idea che si doveva ripartire dal lavoro». Fatto sta che il sobrio e silenzioso Bondi riesce nell’intento di risanare l’azienda (anche con tagli dolorosi), la riporta in Borsa nel 2005, fino a che, nel 2011, arriva Lactalis e lancia l’Opa vincente.
UNA CONCLUSIONE AMARA
Un epilogo che lascia molti con l’amaro in bocca. «La verità è che la storia è finita male – tira le somme Barbuti –. Bondi riuscì a recuperare alle banche un tesoretto importante, oltre 2 miliardi di euro, ma invece di reinvestirlo per far crescere l’azienda, lo usò come un’esca: è arrivato il pesce più grosso e ci ha mangiato». Cosa è rimasto di quegli anni, oggi nella fabbrica di Collecchio? «Oggi siamo in un altro mondo – spiega Claudio Lombardelli, delle Rsu –, Innanzitutto le dimensioni sono più ridotte, da 500-600 operativi siamo rimasti in circa 200, poi è cambiato completamente il modo di rapportarsi all’azienda. Nonostante lo sforzo di alcuni dirigenti, oggi quel patrimonio di relazioni non c’è più, la testa è in Francia e non c’è più quel legame col territorio che ci caratterizzava».