Valeria Di Corrado, Il Giornale 8/12/2013, 8 dicembre 2013
LUI 60, LEI 11: PER I GIUDICI È AMORE
Siamo abituati alle bizzarre decisioni della Cassazione, ma quella riportata dalla stampa calabrese supera i limiti della comprensione umana. La pena per la violenza sessuale ai danni di un minore può essere ammorbidita se ci sono le prove dell’amore della vittima per il suo carnefice.
Quello che è successo a Catanzaro assume tratti preoccupanti. Le toghe della Cassazione si sono trasformate in giudici di un presunto sentimento, ancor prima che dei reati. Come raccontato dal Quotidiano della Calabria, una donna affida la propria figlia a Pietro Lamberti, un impiegato dei servizi sociali del Comune, con la speranza che possa aiutarla a risolvere i suoi problemi scolastici. Lui ha 60 anni, lei undici. Ma ben presto il loro rapporto si trasforma in altro. Prima il corteggiamento («Ma tu mi ami?», gli chiedeva la bambina); poi la paura dell’uomo di essere scoperto (Lamberti ha più volte invitato la ragazzina a tenere celato il loro segreto e le diceva di non chiamarlo nel weekend perché doveva stare con la famiglia); infine il sospetto di aver oltrepassato il limite e di avere gli occhi della madre puntati addosso. Ed è stata proprio la madre, preoccupata dall’eccessiva e morbosa premura di Lamberti nei confronti della figlia, a far partire le indagini tre anni fa, dopo la confessione dell’undicenne. E così la polizia ha piazzato le microspie nella villa estiva di Lamberti, a Roccelletta di Borgia, sulla costa jonica catanzarese. Decine di intercettazioni hanno documentato la relazione tra i due. L’ultima, sempre in base a quanto riportato dal Quotidiano della Calabria, ha fatto scattare il blitz: «Tesoro, non cacciarmi le mani».
I poliziotti hanno fatto irruzione e li hanno trovano nudi, sotto le lenzuola. All’epoca la giovane non andava più a scuola e, secondo quanto riferito dalla polizia, si trovava in un «assoluto stato di assoggettamento psicologico». Lamberti finisce in manette, per lui si spalancano le porte del carcere, ma esce poco tempo dopo per problemi di salute. Il giudice di primo grado lo condanna per violenza sessuale a cinque anni, superando i 4 anni e 4 mesi chiesti dalla Procura. La famiglia si costituisce parte civile, ottiene 40mila euro di risarcimento, ma vuole andare avanti, fino alla condanna definitiva. In secondo grado la pena viene confermata. Ma è al gradino finale che arriva il colpo di scena: la Suprema Corte invece di mettere la parola fine, conferma la condanna, ma rinvia in Appello parlando di «tenuità del fatto» e invitando a considerare la richiesta di eventuali attenuanti generiche. Motivo? I due erano innamorati. A undici anni si è consapevoli del significato della parola amore? La decisione rischia così di alleggerire la pena. In nome di un presunto sentimento. Una decisione che farà molto discutere e che soprattutto potrebbe costituire un pericoloso precedente.
Tra l’altro non è la prima volta che la magistratura usa le tavole dell’amore invece che quelle delle leggi. Una storia simile è capitata nel febbraio del 2008. Il tribunale di Vicenza infatti aveva inflitto una condanna «mite» (un anno e 4 mesi) a un macellaio di 34 anni che aveva avuto rapporti sessuali con una tredicenne. Il tutto perché lei era «consapevole e consenziente» e lui «innamorato». All’imputato non era stato contestato il reato di stupro, ma quello di atti sessuali con una minorenne. Così come non era stata presa in considerazione la tredicenne che dichiarò di essere stata convinta a salire in auto e indotta ad avere rapporti sessuali. Prevalse la tesi della difesa, secondo la quale tra i due si era instaurato un rapporto di amore. All’epoca insorse l’Osservatorio sui diritti dei Minori: «A prescindere dalla volontà o meno di una tredicenne di avere rapporti sessuali con un adulto, è comunque esecrabile che una legge dello Stato preveda riduzioni di sorta». Ora il copione si ripete.