Gilberto Corbellini, Il Sole 24 Ore 8/12/2013, 8 dicembre 2013
PSICOLOGI SEMPRE PIÙ NEURO
Il millenario confronto intellettuale tra spiritualisti/idealisti, da una parte, e materialisti/naturalisti dall’altra, con l’avanzare del Novecento ha assunto le forme di una discussione epistemologicamente sempre più definita sulla riducibilità delle funzioni mentali a processi neurali, tra psicologi e neuroscienziati sperimentali (l’aggettivo è necessario perché numerosi psicologi aspirano a essere neuroscienziati, nella misura in cui confrontano le loro ricerche empiriche con dati neurobiologici). Se si guarda all’evoluzione nel tempo delle discussioni e delle ricerche sulla natura dei fenomeni che chiamiamo mentali o psicologici, non è difficile prevedere che gli psicologi del futuro saranno neuroscienziati. A parte una frazione di irriducibili, che sempre esisterà e che per ragioni "psicologiche" (neurogeneticamente spiegabili) non vorrà mai accettare che la propria soggettività, quel che essi "sentono" di essere, sia davvero niente di più che l’attività biochimica ed elettrica espressa da circa 100 miliardi di neuroni chiusi in un cranio, connessi attraverso milioni di miliardi di sinapsi e incessantemente all’opera per produrre un flusso incessante di informazione. Nel senso che la "neuromania", stigmatizzata da un fortunato libro di Legrenzi e Umiltà, rimarrà un episodio storicamente curioso, caratterizzato da un forse troppo precoce entusiasmo per la possibilità che l’introduzione di tecnologie radiologiche in grado di catturare immagini del cervello in azione, potesse ricondurre tout court lo studio di diversi aspetti del comportamento umano, come quello politico, religioso, morale, economico, eccetera a spiegazioni di natura neuroscientifica. E questo solo aggiungendo il prefisso "neuro" a preesistenti settori disciplinari: neuroeconomia, neuroestetica, neuroetica, neurodiritto, neuropolitica… neurocultura.
Il libro di Aglioti e Berlucchi, neuroscienziati di fama internazionale e competenti anche sulle declinazioni filosofiche della discussione, è un’esplicita replica, già nel titolo, alle paure sociali e alle preoccupazioni accademiche per l’espansione culturale delle neuroscienze. Ed è una risposta sobria e ragionata, senza l’inopportuno tono irrisorio di chi paventava il pericolo della neuromania, che spiega al lettore cosa sono davvero le neuroscienze. Al di là di caricaturizzazioni strumentali o mediatiche. Prima di tutto, dimostrando che non sono solo le neuroimmagini a consentire di identificare quelle attività nervose che producono i comportamenti umani più sorprendenti, dal linguaggio, alla coscienza, al sentimento del bene e del bello. Le neuroscienze dispongono, infatti, di un’attrezzatura tecnica, di materiale clinico e di teorie del cervello straordinariamente informative. E gli autori riconoscono che alcuni prefissi "neuro" sono esagerati o non giustificati. Ma è, nondimeno, innegabile che la spiegazione ultima, almeno su un piano naturalistico, di quel che siamo, si trovi nel cervello. Il dualismo è solo un autoinganno… della mente.
Questi fatti non tolgono che vi sono sviluppi della ricerca psicologica che continuano a essere importanti e validi in prima istanza, con ricadute socialmente utili. Per esempio, non ci sono dubbi che alla base dei processi motivazionali che organizzano e guidano il nostro comportamento verso la realizzazione di specifici scopi, modulandone l’efficacia in rapporto alla storia della persona e alla situazione, ci sono definite attività del cervello. Ma le nozioni di "agenticità umana", di autoefficacia percepita, di "locus of control", eccetera cioè le idee alla base dell’approccio cognitivista alla definizione dei tratti che caratterizzano la personalità nel contesto delle relazioni sociali rimangono strumenti validi per spiegare e istruire i contesti in cui si formano le personalità individuali, e quindi per fare una buona manutenzione anche della salute mentale e sociale. In questo senso, il libro di Gian Vittorio Caprara, al di là del titolo un po’ forzato, illustra come rimanga informativa ed euristicamente ricca la tradizione degli studi che derivano dalla teoria cognitiva sociale o dell’apprendimento sociale di Albert Bandura, lo psicologo canadese indiscutibilmente più importante e influente negli ultimi cinquant’anni. Merita particolare attenzione l’ultimo capitolo del libro, che riflette gli attuali interessi di Caprara per le implicazioni politiche della ricerca psicologica sulla motivazione. Egli ha in mente le carenze psicologiche dei cittadini italiani quando scrive che «si può avere la sensazione di una scissione tra convinzioni di efficacia personale e convinzioni di efficacia collettiva quando il cittadino si dimette, si dissocia, o comunque prende le distanze, da un agire collettivo che sembra sempre più complesso, incomprensibile e imprevedibile. È però pura illusione rifugiarsi nel privato delle proprie convinzioni di efficacia quando la nostra vita scorre sotto il segno dell’interdipendenza e della reciprocità. La fiducia che le persone possono riporre nell’azione collettiva non può che dipendere da quanto esse investono nell’azione collettiva impegnando direttamente la propria autoefficacia». La riflessione teorica in ambito politico dovrebbe anche in Italia imparare dal mondo anglosassone, dove gli psicologi della personalità sono sempre più coinvolti nella elaborazione delle strategie discorsive per motivare gli individui a "sentire" di avere il controllo della loro vita, perché in questo modo la loro partecipazione alle dinamiche sociali concorrerà al benessere collettivo.
Rimane il fatto che se i ragionamenti psicologici, pur empiricamente corroborati, sui processi motivazionali e le dinamiche dell’agenticità umana non vengono ancorati a strutture neurobiologicamente definite, e inquadrati nella profondità storico-evolutiva che sola può dare un senso al comportamento umano, si rischia di rincorrere sempre i fatti. Invece di cominciare ad anticiparli. Nel capitolo conclusivo del libro di Aglioti e Berlucchi si può leggere il sensato messaggio che «la visione cerebrocentrica dell’uomo non nega la causalità psicologica né sminuisce minimamente il valore che attribuiamo alle caratteristiche intellettuali, morali e spirituali della nostra specie». Anzi. E come aveva già capito il barone D’Holbach, spiegare naturalisticamente l’uomo non ci disonora. Come si può, infatti, pensare che la nostra specie «sarà davvero più onorata quando si dirà che l’uomo agisce per gli impulsi segreti di uno spirito, o di un certo non so che, che riesce ad animarlo, senza che si possa sapere come?» (Il buon senso, 1772).