Giulia zonca, La Stampa 8/12/2013, 8 dicembre 2013
L’ORO DI OWENS FA ANCORA STORIA
L’ultimo record di Jesse Owens non è un cronometro né una misura, è un prezzo. Uno dei quattro ori vinti a Berlino nel 1936 è stato venduto per più di un milione di dollari, per la precisione 1.466.574: la cifra più alta mai pagata per un memorabilia olimpico.
Prima di convertire la gloria in moneta e inorridire perché la storia è stata archiviata con uno scontrino c’è un filo da seguire, un romantico racconto che ha tenuto viva quella medaglia fino a oggi. Ricordi che non si assorbono in un museo e che Ron Burkle, il facoltoso americano da ieri nuovo proprietario dell’oro, può alimentare. Non è detto che l’offerta all’asta sia la fine di un sogno.
È l’unico originale rimasto in circolazione e non è possibile sapere da quale gara arrivi. Le medaglie del 1936 erano tutte identiche, secondo la donna che ha consegnato il cimelio agli investigatori, assunti per tracciarne il percorso, è la vittoria dei 200 metri anche se non c’è modo di certificarlo.
Nelle foto sul podio dei Giochi tedeschi Owens non ha le medaglie al collo, il cerimoniale era diverso da quello contemporaneo e il primo scatto con i suoi quattro gioielli arriva al ritorno in America. Lui posa per un servizio con l’alloro tra i capelli, indossa il gilet della divisa ufficiale e tiene tre medaglie nel palmo della mano e una nell’astuccio davanti a lui. Siamo a un mese scarso dal trionfo solo che gli Usa sono piuttosto indifferenti e quasi seccati quando in una famosa intervista Owens si rifiuta di sottomettersi alla suggestione: «Vero, Hitler non mi ha stretto la mano ma fino a qui non lo ha fatto neanche il presidente degli Stati Uniti». Il campione evita di condannare i problemi del mondo senza pensare alla discriminazione che c’è in patria, lo fa sotto voce, senza offendere e senza protestare però di certo non si sente un simbolo e non guadagna come tale. Lo sport rende poco e l’idolo che noi oggi giustamente veneriamo si riduce a correre nelle fiere contro i cavalli. Per scappare dall’effetto baraccone si rivolge a un amico, Bill «Bojangles» Robinson, il re del tip tap.
Non è chiaro come i due si siano conosciuti. Bill è il nome più considerato al Cotton Club, è la spalla di Shirley Temple. Guadagna, sperpera e conosce chiunque conti. Aiuta Owens a entrare nel mondo dello spettacolo e gli assicura una carriera che Jesse lascerà presto. Troppo timido per reggere il palcoscenico e troppo fedele alla sua immagine per trasformarsi in showman. Incassa quanto basta a rimettersi in piedi e a farsi notare dalle università e dai college che iniziano a pagarlo come oratore. In quei pochi mesi dietro le quinte però i due uomini si confidano e si sostengono e prima di togliersi dai riflettori Owens regala una delle sue medaglie a Bill. Lo dice in un’intervista alla Nbc quando ormai mr tip tap è già morto: «Era un vero amico e ci tenevo a dimostrargli la più sincera gratitudine».
Pochi anni dopo i Giochi di Berlino una delle medaglie destinate a diventare icona ha già lasciato casa Owens. Bill Robinson muore nel 1949 e consegna l’oro, ormai pegno di un’amicizia, alla terza moglie, Elaine Plaines. Ballerina anche lei, generose scollature e sorriso contagioso, sposa Bill a 23 anni e si ritrova vedova a 28. Custodirà il gioiello per un’esistenza. Si è separata da quel ricordo solo due mesi fa, ormai 92enne. Un’anziana signora che avrebbe potuto arricchirsi con la vendita da decenni ma non l’ha mai fatto ed è improbabile che non sapesse di possedere un tesoro perché nel 1972 una foto bluff ha svelato il destino di quei riconoscimenti. Compreso il suo.
Owens ha posato in mezzo ai suoi successi, sdraiato in poltrona, dietro una scrivania, circondato dalle coppe e con le medaglie ancora nel palmo della mano. Una copia riadattata della celebre foto fatta al ritorno dalla Germania, solo che gli ori non erano veri ed è proprio lui a raccontarlo qualche giorno dopo il servizio. Li ha persi, non ha idea di dove siano finiti e i tedeschi gli hanno fornito delle copie per omaggiarlo, per ripagarlo di quel successo che ha illuminato anni bui. Un’unica medaglia si è salvata, sta in casa Robinson. Owens lo ricorda perfettamente e di certo non si sogna di recuperarla, chiederla indietro sarebbe un’offesa al suo vecchio amico. Il cimelio passa da un cassetto all’altro, segue Elaine nei traslochi, la accompagna nella vecchiaia e nessuno sa perché abbia deciso di guadagnarci su proprio ora. Per gli eredi? Perché ha un disperato bisogno di liquidi? Perché l’aveva smarrita? Perché è ormai così anziana da non sentirsi più la custode del pegno e non avendo avuto figli con Bill preferisce che altri si prendano cura di quel pezzo di storia? Altri disposti a sborsare quasi un milione e mezzo di dollari? Resta il mistero. La casa d’aste ha suggerito alla signora di dare una motivazione per placare l’ondata di sdegno. Si sono offesi un po’ tutti, dal presidente del Comitato olimpico, ai figli di Owens, alle varie leggende dell’atletica. Ognuno convinto che dare un prezzo a un simbolo sia uno scempio. Magari è solo un cambio, l’oro di Berlino, l’oro vinto dal nipote di uno schiavo davanti al profeta della razza ariana, esce dalla vita di Elaine Plaines ed entra in quella di Ron Burkle. Un fanatico degli oggetti.
Burkle è milionario, possiede una squadra di hockey, i Pittsburgh Penguins, e sostiene quasi tutte le campagne dei democratici. Personale amico dei Clinton, ha già investito una fortuna per mettere le mani sul premio Nobel di William Faulkner: lavora a una collezione da aprire al pubblico e ha alzato il prezzo per la medaglia di Owens quanto bastava per girare anche una piccola percentuale alla sua fondazione. Non un filantropo, ma un appassionato che oltre a staccare l’assegno dovrà scoprire i segreti di Bill il ballerino e dell’enigmatica Elaine se vuole davvero essere il padrone di un pezzo di storia.