Molly Crabapple, La Lettura - Corriere della Sera 8/12/2013, 8 dicembre 2013
IL DETENUTO PESA 32 CHILI
Lo scorso giugno, il Dipartimento della Difesa mi mandava ogni giorno delle email con il numero dei prigionieri che rifiutavano il cibo e di quelli che erano — con un eufemismo usato alla base — «nutriti per via enterale» (venivano cioè legati a una sedia, mentre gli infermieri gli pompavano nello stomaco un frullato di proteine attraverso un tubo). A giugno, 106 dei 166 detenuti allora avevano aderito allo sciopero. Ora ne sono rimasti 15. Secondo Pardiss Kebriaei, del Center for Constitutional Rights, uno di questi uomini pesa 32 chili. Le email del Dipartimento della Difesa sono cessate. A Gitmo (nome usato dall’esercito Usa per indicare la base navale di Guantanamo Bay), gli eufemismi sono tutto quanto resta dell’America.
Nei dodici anni trascorsi da quando gli Stati Uniti hanno cominciato a portare prigionieri musulmani a Cuba, ci sono state sette condanne per crimini di guerra e sono stati spesi 5,24 miliardi di dollari. Ora perfino il generale Mark Martins, procuratore capo di Guantanamo, ammette che solo venti dei 164 uomini ancora detenuti sull’isola saranno incriminati. I restanti 144 probabilmente saranno detenuti fino alla fine della guerra al terrore. Ma nessuno — né i portavoce, né gli ex procuratori e neppure il contrammiraglio Butler, l’uomo più potente dell’isola — sa che cosa significhi la fine della guerra al terrore.
Guantanamo è un’allegra cittadina americana con un negozio di souvenir i cui bicchieri decorati con delfini hanno l’aria di essere dei boccali di birra kitsch a Dachau. Il motto di Gitmo è Honor Bound to Defend Freedom (l’onore mi impone di difendere la libertà). La dichiarazione della sua missione è: «Sicuro, legale, trasparente, umanitario». «Umanitario» è una delle parole più in voga a Guantanamo. È quasi come «umano», ma non del tutto. Le guardie indossano visiere di plastica. A volte i detenuti vengono innaffiati di urina. Le guardie dicono di non sapere il perché. Dopo un turno tra i nove e i dodici mesi, le guardie tornano a casa e ne arrivano altre, e con esse il confronto con le incombenze quotidiane ricomincia. Le guardie conoscono gli uomini che sorvegliano solo dal numero. Se questi numeri restano o se ne vanno, per loro non fa differenza. «Il mio lavoro è svolgere i miei compiti», mi dice il tenente Smith. I suoi superiori approvano con un cenno del capo. Il tenente Smith è biondo, di una bellezza campagnola. Mi chiama signora. La corpulenta guardia 09166 dice che dato che non «capisce perché si debba essere detenuti a oltranza», non se ne preoccupa. Due volte al giorno, la bella Andromaca (come tutti gli ufficiali medici, anche lei usa uno pseudonimo shakespeariano), ficca un tubo nello stomaco di diciotto uomini legati. Poi gli pompa dentro un frullato di proteine. Seduta accanto alla sedia di contenzione, mi dice di non sentirsi in colpa. Come il tenente Smith, sta solo eseguendo gli ordini. Le guardie hanno un cappellano per la cura delle anime. Gli chiedo se qualcuno di loro abbia mai espresso dei dubbi su quel che sta facendo qui. Mi dice di no. Quando tutto è incasellato, non c’è bisogno di pensare.
Carol Rosenberg, una giornalista del «Miami Herald» che per 12 anni si è occupata della base, ha diffuso attraverso Twitter pagine di documenti del tribunale di Gitmo che erano stati resi accessibili al pubblico. Molte frasi erano censurate con una riga nera. Mentre pranziamo alla mensa delle guardie, l’addetto stampa mi avverte che anche la linea costiera è sottoposta a segreto militare. I militari temono che Al Qaeda possa tentare uno sbarco. I jihadisti, come chiunque altro, possono vedere l’intera conformazione di Guantanamo su Google Earth. Ma questo pare non preoccupi. I segreti generano obbedienza. Importa poco che il segreto sia già di dominio pubblico.
Brandon Neely è uno dei pochi che non terrà nascosti i segreti di Guantanamo. Neely è ora un poliziotto in Texas, ma undici anni fa era una delle guardie di Guantanamo. È andato a Londra per chiedere personalmente scusa agli uomini che aveva sorvegliato. Ha parlato ai media di pestaggi, torture e detenzione di innocenti. L’ho chiamato e gli ho domandato perché lo ha fatto. «Non per soldi o per avere notorietà o cose simili», ha risposto. «Al lavoro mi è costato caro, è stato un inferno. L’ho fatto solo perché la gente deve essere informata. Per far capire che i detenuti non mentono. Come posso insegnare ai miei figli a fare quel che è giusto, se io per primo non sono disposto a farlo... Era un rischio che dovevo correre».
L’ultima mattina abbiamo preso un sandwich McMuffin all’uovo al McDonald’s della base. Kelly, una signora bionda e gentile a capo dell’ufficio di pr della base navale di Guantanamo, si lamenta che le è stato difficile rendere note le belle cose che fa la Marina. I media si occupano solo dei prigionieri. La Marina non ha nulla a che fare con le prigioni. Kelly non ne è più responsabile di quanto io, da newyorkese, lo sia delle carceri di Rikers. Mangio il mio sandwich McMuffin sul traghetto che mi riporta all’aeroporto. A Guantanamo 144 uomini sono detenuti senza un’accusa. Nessuno sa quando saranno rilasciati.