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 2013  dicembre 07 Sabato calendario

E MADRID SUPERA A DESTRA


Il sorpasso nel rating. È questo l’evento che gli investitori danno per scontato nel 2014 nel rapporto tra Italia e Spagna. Quello iberico è, per S&P, BBB- con outlook stabile, mentre quello di Roma segna BBB con outlook negativo. A spinta riformista del governo Letta invariata, il consensus del mercato vede probabile un nuovo downgrade italiano, magari coincidente, con la prima promozione di un notch del rating della Spagna.

Perché? Conta il presente, ovviamente, in termini di pil che si proietta nel futuro e conta molto quanto fatto da Roma e Madrid nel 2012. Nell’ultimo trimestre l’economia spagnola ha segnato +0,1% quella italiana -0,3%; le previsioni danno l’ultimo quarter dell’anno a +0,3% per il pil iberico e ancora meno per il Belpaese. Un differenziale che prende forma nel 2012, ai tempi del governo Monti, quando, potrà sembrare incredibile dato il collasso sistemico delle banche iberiche, il pil spagnolo si è contratto molto meno di quello italiano: dell’1,6 contro un -2,4%. Il 33% in meno se misurato sui dati italiani e addirittura il 50% meglio se si prende per base il pil di Madrid. Nel 2012 l’economia italiana è stata la peggiore dell’Eurozona, Grecia esclusa, e la risposta a questa debacle è molto semplice: l’Italia, a parte le solite pensioni, continua a rinviare le riforme indispensabili per restare allineati con la globalizzazione.

Il presidente della Bce, nell’estate del 2011, con la sua lettera, a doppia firma con Mario Draghi, era entrato nello storico problema della legislazione del mercato del lavoro italiano suggerendo addirittura i dettagli delle riforme da adottare: meno rigidità nelle norme sui licenziamenti dei contratti a tempo indeterminato, interventi sul pubblico impiego, superamento del modello attuale imperniato sull’estrema flessibilità dei giovani e precari e sulla totale protezione degli altri, infine una contrattazione aziendale che incentivi la produttività.

Neppure lo spread a quota 550 ha ottenuto un effetto riformatore; neppure la minaccia rappresentata per il benessere collettivo e per le future generazioni da un costo del debito insostenibile. Neppure l’affermazione del M5S come partito più votato alla Camera. L’Italia, a differenza della Spagna, rimane un Paese non facilmente riformabile e liberalizzabile con una struttura di monopoli nei quali la proprietà pubblica non retrocede di un centimetro e un mercato del lavoro sempre più atipicamente regolamentato nel mondo globalizzato e ora, post crisi, anche molto distante dalle discipline sul lavoro degli altri paesi colpiti dal superspread.

In Spagna, invece, il governo di Mariano Rajoy ha introdotto una forma unica di contratto a tempo indeterminato nelle aziende con meno di 50 addetti prevedendo, contemporaneamente, una totale liberalizzazione dei licenziamenti. Inoltre, i contratti di impresa prevalgono su quelli nazionali o regionali, che alla scadenza saranno validi solo per altri due anni, poi i contratti saranno solo a livello di singola azienda. Il taglio agli stipendi dei dipendenti pubblici, poi, non è stato un tabù a Madrid ed è stato fatto, mentre in Italia la Consulta ha bocciato perfino il contributo di solidarietà del 5 o del 10% su pensioni e salari più elevati della pa.

Appena vinte le elezioni Mariano Rajoy, in poco più di sei mesi, ha varato tre manovre in successione per 102 miliardi, una cosa mai vista nella storia iberica. Le molte riforme adottate e i tagli alla spesa corrente hanno posto le condizioni per la nascita della nuova economia spagnola. Il nuovo premier ha razionalmente preso atto che nel mondo globale di oggi e nel contesto dell’Eurozona sussidiare e fare spesa pubblica corrente non era più un esercizio possibile per la Spagna alla ricerca di un nuovo posizionamento competitivo. Così, mentre in Italia, appena il governo Letta ha ventilato la possibilità di tagli alla sanità è stato investito da ogni tipo di critica anche al suo interno, il premier di Madrid già nel 2012 ha tagliato di 7 miliardi la spesa corrente della sanità e di altri 3 quella dell’istruzione, puntando più sul cambiamento dei meccanismi di spesa che sulla fiscalità.

Qui sta la principale differenza rispetto all’Italia. Le manovre tradizionali, solo basate sulle entrate, non bastano più ai mercati, che chiedono una discontinuità compiuta rispetto alle politiche del Novecento. Rajoy riforma e in questo modo rassicura di più gli investitori e incassa il premio sui rendimenti dei Bonos.

Il sorpasso, di fatto effettuato, dai Bonos sui Btp decennali suona come un doppio campanello di allarme, perché in Spagna la finanza pubblica è molto meno virtuosa che in Italia. Il rapporto tra deficit e pil è vicino al 6% e resterà lì anche nel 2014, mentre il debito pubblico sfiora il 100% della ricchezza nazionale quando era solo il 40% nel 2008. Eppure mercati e investitori preferiscono dare un premio per il rischio più basso a Madrid. Lo scorso 2 gennaio i Btp a 10 anni pagavano 283 punti più dei Bund, gli analoghi Bonos 362, quindi un titolo di Madrid rendeva quasi lo 0,8% in più. Alla nascita del governo Letta, il 29 aprile, il differenziale era ancora favorevole ai Btp (296 contro 271). Ma l’azione del governo di larghe intese (quello di Madrid è un monocolore), invece di beneficiare lo spread regalando all’Italia una riduzione quantomeno analoga a quella conseguita dalla Spagna, non ha dato i benefici attesi. Anche il costo del denaro a breve dei titoli di Stato di Madrid è già inferiore a quello dei Bot: i titoli italiani a due anni pagano un tasso di rendimento dell’1,19% contro l’1,05% iberico. Segno che le larghe intese di galleggiamento hanno poco appeal per Lady Spread e che, se qualcuno si illude di galleggiare senza riformare in profondità l’economia fino al 2015, allora è bene che metta in conto che i mercati lo faranno presto risvegliare in malo modo.

La Spagna, che ha fatto una riforma vera del mercato del lavoro, il taglio della spesa corrente della pa e deciso interventi strutturali, invece di rimanere per un semestre appesa alla non questione dell’Imu, è premiata dai mercati, mentre l’Italia delle larghe intese vede crescere il suo costo del denaro. Tutta una questione di stabilità politica? Niente affatto, visto che il premier spagnolo, Mariano Rajoy, non è mai stato tanto debole nel corso dell’attuale legislatura, inseguito come è da scandali di varia natura e da una caduta di credibilità. I mercati vendono i Btp perché le entrate tributarie vanno tutt’altro che bene e perché, non avendo i governi Monti e Letta avuto alcuna capacità di incidere sulla spesa corrente, la sostenibilità dell’apparato pubblico italiano (che oggi costa di più ai contribuenti di quanto non fosse prima della crisi) è sempre meno possibile da parte di un paese che ha perso circa 9 punti di pil dal 2008. La differenza è tutto del saper decidere e fare: la Spagna fa, l’Italia discute.

Rajoy, iniziando a tracciare la via del post welfare spagnolo, meno basato sulla fiscalità e gradualmente privatizzato, ha prodotto il punto di svolta della crisi del suo Paese. Del resto, con una disoccupazione stabile al di sopra del 20% e una concreta difficoltà nel collocare i titoli di Stato a tassi sostenibili, non ha avuto molte opzioni alternative praticabili. Meglio avere una sanità pubblica che assicura i soli servizi di base che andare in default come la Grecia e non potersi neppure più permettere di comprare le medicine o di pagare le pensioni.