Gianluca Di Donfrancesco, Il Sole 24 Ore 7/12/2013, 7 dicembre 2013
CUBA PUNTA I PIEDI L’ACCORDO DELLA WTO SLITTA IN EXTREMIS
Non finiscono mai gli ostacoli sulla strada della Wto. Se fino a venerdì era l’India a bloccare i lavori del vertice in corso a Bali, ieri ci ha pensato Cuba. E dire che tutto sembrava filare sorprendentemente liscio.
Stati Uniti e Europa erano riusciti a trovare un compromesso soddisfacente per New Delhi sui sussidi alimentari. Tanto da permettere al direttore generale, il brasiliano Roberto Azevedo, di consegnare ai capi delegazione il testo della dichiarazione ministeriale da ratificare. Certo, non un accordo epocale, anzi. Una serie minima di misure soprannominata Doha light, meno del 10% del programma di apertura degli scambi commerciali approvato nella capitale del Qatar nel 2001. Ma pur sempre un accordo dopo 12 anni di nulla. Accolto perciò da ben tre applausi. Poi il gelo, con il no di Cuba che non aveva ottenuto l’inserimento di un testo, da lei proposto, per vietare ai membri della Wto di applicare misure discriminatorie alle merci in transito alle frontiere. In questo modo, si sarebbe assicurata uno strumento di protezione rispetto all’embargo degli Usa nei suoi confronti. A nulla sono serviti gli sforzi di Azevedo, né tantomeno quelli degli altri 158 delegati, chiusi per ore nella sala delle trattative per cercare un compromesso. Con un durissimo intervento dai toni fortemente ideologici, nell’ultima sessione ministeriale, quella convocata per chiudere, Cuba, a nome anche di Venezuela, Bolivia, Nicaragua ed Ecuador, ha battuto i pugni sul tavolo. Alle 2.42 del mattino (ora di Bali) i lavori sono stati sospesi, per essere convocati di nuovo alle 4.30 e andare avanti a oltranza.
L’accordo di Bali sarebbe il primo dalla nascita dalla Wto e comunque dopo l’Uruguay round del 1993. Sulla sua portata ci sono scuole di pensiero diverse: Azevedo ha stimato in mille miliardi di dollari la ricchezza che potrebbe creare e in circa venti milioni i posti di lavoro che ne potrebbero seguire. Gli scettici lo considerano invece un compromesso capace al massimo di salvare la faccia alla Wto. Sulla sua approvazione ci sarebbe però un consenso trasversale amplissimo, persino la Cina spinge in questo senso.
All’interno dell’Organizzazione, le decisioni vengono prese per consenso, il veto di uno Stato basta quindi a bloccare tutto. Bisognerà allora superare l’ennesimo ostacolo, dopo aver già con fatica trovato il compromesso con l’India. New Delhi voleva che venisse cancellato il tetto sulle sovvenzioni all’agricoltura. Secondo i compromesso raggiunto, non vi saranno sanzioni per i Paesi che lo sforano, se lo fanno per un programma di sicurezza alimentare, fino a quando non verrà trovata una soluzione permanente al problema, rinviata alla prossima ministeriale, prevista tra quattro anni. Questi interventi, però, non devono alterare gli scambi commerciali con effetti di dumping. L’India ha un programma da 15 miliardi di dollari in sussidi che dall’anno prossimo garantirà cibo a basso prezzo al 70% della sua popolazione, 800 milioni di persone che vivono con meno di 2 dollari al giorno.
Il pacchetto di Bali prevede inoltre l’alleggerimento dei diritti di dogana per i prodotti provenienti dai Paesi meno avanzati e agevola gli scambi, con la semplificazione della burocrazia alle frontiere.
ORGANISMO IN CRISI D’IDENTITÀ –
Con l’interminabile stallo del Doha round, 12 anni di trattative ancora senza risultati, e con il ritorno massiccio della diplomazia economica bilaterale, la Wto ha visto il proprio ruolo ridursi sempre più a quello di tribunale per le dispute commerciali. Non è poco, anche considerata la mole di ricorsi e i poteri pervasivi dell’Organizzazione, forse l’unico organismo sovranazionale in grado di imporre le proprie decisioni.
Il senso politico, però, si fa sempre più sfocato. Il fiorire di intese bilaterali e regionali fraziona il mercato mondiale in blocchi e coalizioni che, se portano l’integrazione al proprio interno a livelli impensabili per un accordo globale, al tempo stesso discriminano tutti quelli che ne restano fuori. In antitesi con lo spirito dell’Organizzazione mondiale del commercio e sempre più a danno, potenziale, di Stati come la Cina, per esempio. Che non a caso da qualche tempo spinge proprio per tenere in vita un consesso multilaterale come la Wto. Al tempo stesso, le intese bilaterali sono logica conseguenza dell’insuccesso dell’organizzazione, vittima della regola dell’unanimità, che se dà voce a chiunque, dà però anche a ciascuno il potere di bloccare tutti. Di fronte alla paralisi, le potenze commerciali hanno reagito nell’unico modo possibile e hanno scelto di integrare le proprie economie con i partner più convenienti, più disponibili a trovare intese.
Del resto, la stessa Wto riconosce che dal 2001, la gran parte dei progressi nel campo della cooperazione commerciale è avvenuta nell’ambito di iniziative bilaterali e regionali e che molti temono che questo trend minaccia di confinare l’Organizzazione a un ruolo di mera amministrazione, sorveglianza e applicazione degli accordi multilaterali esistenti, piuttosto che di stesura di nuove intese. Il vertice di Bali non cambia troppo le carte in tavola. Da domani gli Stati membri saranno chiamati a decidere se i negoziati multilaterali dovranno abbandonare l’idea ambiziosa di mettere sul tavolo tutti i dossier aperti, per focalizzarsi invece su un tema alla volta. E come far convivere le intese regionali con il multilateralismo.