Valerio Cappelli, Corriere della Sera 7/12/2013, 7 dicembre 2013
IL PRESEPE? UN’OPERA TRAGICA
A casa De Simone è Natale tutto l’anno. All’ingresso troneggia un presepe settecentesco per tutti e dodici i mesi. Roberto De Simone è un blocco unico di artista, ora compositore, ora studioso (ha appena pubblicato Cinque voci per Gesualdo, «travestimento in musica e teatro» su Gesualdo da Venosa). Col suo eloquio forbito, ti racconta del suo presepe fatto di «figure modellate a mano che sembrano eseguite rozzamente, questa non definizione delle forme conferisce ai pastori una sacralità non realistica, estranea alla perdita di valori religiosi». È un presepe a spirale, quasi una visione dantesca, alla cui sommità domina la strage degli innocenti, «che nei presepi successivi fu abolita dalla buonista morale borghese. Qui, vede, c’è la crudeltà della strage che dalla cima scende in basso, nella scena delle lavandaie, testimoni della verginità di Maria. Un misto di angelicità e demonismo, un presepe concepito come le Stazioni della sofferenza di Cristo».
È solo all’inizio della Casa-museo di De Simone, che ha compiuto 80 anni ma dice che «non c’è niente da festeggiare, semmai da commemorare. La situazione napoletana è tragica, il territorio è devastato dagli sversamenti di rifiuti tossici. E poi Napoli è una città culturalmente invivibile. Ho perseguito la cultura alternativa e popolare, sono stato cacciato, messo nell’angolo, dalla sinistra e dalla destra». Un rapporto lacerato fin dagli Anni 50, il «laurismo», la Democrazia cristiana, il socialismo, Bassolino e «il bassolinismo».
Ha criticato il restauro del San Carlo e la nuova acustica, «il vertice del teatro ha risposto che è la fissazione di un vecchio pazzo. Quando ero io direttore artistico, feci abbattere le canne fumarie nascoste dietro le colonne della facciata del teatro, locali usati come sale di banchetto ad uso privato, non si sa con quale funzione culturale. La mia denuncia fu insabbiata». Ma la gente ama De Simone, lo considera uno di famiglia, sente la sua passione intellettuale così lontana dalle istituzioni e così vicina a un’idea di cultura popolare calata nella vita reale. A piccoli passi, aiutandosi col bastone, divenuto suo compagno di vita. De Simone ci fa strada nel salotto. Nell’angolo, quasi dimenticato, appare uno strumento per musica da strada, pezzo unico dell’800, è l’arpa popolare di Viggiano, «diatonica, senza pedali, con corde originali di budello». In un’altra stanza, ecco una raccolta di oggetti devozionali sulla religiosità popolare, «sculture fatte a mano, senza quelle caratteristiche che i collezionisti amano: ex voto sotto campane di vetro, pitture sacre, anime purganti in legno raccolte dai robivecchi, sono re, cardinali, una specie di danza macabra, rappresenta l’elemento centrale della religiosità campana. La biblioteca, i copioni teatrali, le stampe, le pitture sulla decorazione di San Gennaro, sulla morte di San Pietro martire, sui miracoli di Sant’Antonio».
De Simone non crede in maniera ortodossa, diciamo che ha una idea «funzionale» della fede: «La religiosità è l’elemento fondante della cultura popolare. Non si può concepire la tradizione se non si fonde la religiosità popolare con il quotidiano. E nelle feste convivono il presente e il passato, la ricerca sul folclore. Nella mia vita ho cercato di coniugare l’oralità e la scrittura, la meta-storia e la storia, poggiando sulla componente improvvisatrice del canto, una vena estemporanea difficile da riprodurre, che richiede una conoscenza specifica del linguaggio sul campo...». De Simone e la sua anarchia intellettuale («non mi sono formato né su Croce né su Gramsci»), l’artista a cui si deve la Pergolesi Renaissance (ora vorrebbe riscoprire Jommelli), l’autore della Gatta Cenerentola: «Ma lo sa che fu finanziata dalla Regione Emilia-Romagna e non dalla mia Campania?».
De Simone l’artista del popolo che viene dal popolo, «mio padre era suggeritore a teatro, mia madre faceva sapone di contrabbando». E questa vecchia foto in bianco e nero sul tavolo? «L’ho ritrovata da poco, Olimpia, la sorella di mio nonno, faceva la medium ed era anche attrice». Sorride col suo sorriso disarmato: «Un’accesa bolscevica».