Francesco La Licata, La Stampa 7/12/2013, 7 dicembre 2013
IL PROFESSORE DALLE DUE VITE CHIAMATO A INCASTRARE IL BOSS MESSINA DENARO
Matteo Messina Denaro, si sa, è considerato l’ultimo dei padrini, l’ultimo grande boss, il tutore della sopravvivenza di Cosa nostra. Così certificano analisti e investigatori dell’antimafia. Ma da queste parti, nel territorio dei grandi intrighi siciliani, Matteo è di più, è visto come un vero e proprio protettore degli oppressi, un padre, un parente o meglio un padreterno da idolatrare. Lo scrivono sui muri, qui a Castelvetrano che «Matteo è grande», a lui si rivolgono per un aiuto, fosse un posto di lavoro o una mano per la sopravvivenza.
Tutti la pensano così? Certo, una maggioranza ama Matteo, ma non tutti si farebbero tagliare un braccio per aiutarlo. Per esempio così non la pensa il professor Tonino Vaccarino, personaggio certamente atipico per queste latitudini. Il «professore», infatti, accentra su di sé alcune delle principali contraddizioni sicule: è stato per quasi cinque anni detenuto al carcere duro sotto la pesante accusa di far parte del gruppo dirigente di Cosa nostra del Trapanese, indicato addirittura come mandante dell’assassinio dell’ex sindaco di Castelvetrano, Vito Lipari. Assolto dal sospetto di mafiosità e di altri reati «inventati da un finto pentito definito calunniatore dalla Corte d’Appello di Caltanissetta», ma condannato per un traffico di stupefacenti: macchia infamante per un insegnante di pedagogia che ha formato generazioni di maestre all’Istituto Magistrale Giovanni Gentile. Schizzi di fango, divenuti sentenza irrevocabile per via delle rivelazioni del collaboratore Vincenzo Calcara, oggi non più ritenuto «fonte di verità» da altri Tribunali. Una sentenza, quella definitiva, che consegnava Vaccarino alla vasta galleria di «amici» di Matteo Messina Denaro.
Poi, dopo il carcere, l’assoluzione dall’associazione mafiosa e l’espiazione della pena per il traffico di stupefacenti, si è materializzato il profilo di un altro Vaccarino, opposto come Jekyll e Mr. Hyde. A Castelvetrano hanno imparato a conoscerlo come «Svetonio» (identità stranamente imposta dallo stesso Matteo e riferita, con inspiegabile cultura umanistica, al nome dell’illustre storico), firma con cui siglò una fitta corrispondenza (da dicembre 2004 a luglio 2006) con Messina Denaro o meglio «Alessio», per usare lo pseudonimo caro al boss. Ma la corrispondenza, poi si saprà, non era uno scambio tra amici, era - al contrario - il tentativo di imbastire un «trappolone» per indurre alla resa il boss più ricercato d’Italia o, quantomeno, per attirarlo in una imboscata che lo avrebbe portato dritto in galera. L’inganno, alla fine, venne scoperto perché qualcuno soffiò all’esterno la notizia che «Svetonio» concordava con gli agenti segreti del generale Mario Mori il contenuto dei «pizzini». E venne alla luce anche il tentativo di monitorare in tempo reale le complicità politico-mafiose che «regolavano» gli appalti pubblici in Sicilia: complicità che di volta in volta avrebbero dovuto essere indicate da «Alessio» a «Svetonio», incaricato di avvicinare i politici e fingere disponibilità a pagare loro la «regolare tangente».
Oggi il professor Vaccarino, che del suo paese è stato assessore e sindaco, incredibilmente continua a vivere a Castelvetrano, con l’inseparabile moglie, Gisella, ex insegnante di italiano e latino ed ex preside del liceo scientifico Michele Cipolla. Continua a coltivare la passione politica che a suo dire «sta alla base di tutti i suoi guai giudiziari. Tutto - spiega - si è rivoltato contro di me quando ho contribuito all’espulsione dalla Dc di Vito Ciancimino, punto di riferimento di Totò Riina e dell’intera famiglia Messina Denaro. Una colpa, questa, aggravata dal rifiuto di far parte di un consorzio da me progettato opposto ai familiari di Matteo». L’altra passione che continua a coltivare è la gestione del cinema Marconi, davvero sopravvissuto in un territorio dove non c’è più un vero centro di aggregazione. «Il Marconi - racconta Vaccarino - fu aperto da mio nonno nel 1898. Andò a Parigi per una gara di scherma, conobbe i Lumière e si innamorò del cinema. Chiuderlo sarebbe come rinnegare le mie origini».
Ma come fa a rimanere nel paese dove Messina Denaro detta legge? «Questo è il mio paese, se ne deve andare chi vive nell’illegalità e si arricchisce col sopruso. La gente deve capire che Matteo non è quel Robin Hood che vuol far credere, non è quel gran pezzo di uomo d’onore, come cerca di accreditarsi col contenuto dei pizzini che mi ha scritto». Eppure molto si è detto di poco gratificante su Vaccarino. «Parole di falso pentito, manovrato dagli stessi mafiosi che diceva di voler accusare. Non lo dico per difendermi, lo dicono le carte giudiziarie successive alla mia condanna. Ma davvero credete che un mafioso, a Castelvetrano, avrebbe potuto collaborare coi servizi segreti?». Già, come mai Vaccarino - per dirla brutalmente - è ancora vivo? Il professore sorride: «Una volta che il gruppo di potere che protegge Messina Denaro, parlo di investigatori, magistrati, politici e imprenditori, mi ha fatto saltare la copertura, riferendo tutto ai giornali, lui mi ha minacciato. Mi ha fatto avere un pizzino terribile che dice: “...ha buttato la sua famiglia in un inferno... la sua illustre persona fa già parte del mio testamento... in mia mancanza verrà qualcuno a riscuotere il credito che ho nei suoi confronti”». E non ha paura? La risposta è molto siciliana: «So che persone a lui molto vicine si sono date da fare per attivare un contatto nei miei confronti. Ma lo sanno anche gli investigatori che indagano ogni giorno su Matteo. Qualunque cosa dovesse accadermi i familiari di Messina Denaro sarebbero chiamati a risponderne. E il suo presunto prestigio ne risentirebbe ulteriormente».
Quale sarà, infine, il destino del professore condannato e agente provocatore impegnato nella crociata contro l’ultimo padrino? «Mi fa male - insiste - leggere sui muri la celebrazione di un uomo che non è stato né onesto e neppure un mafioso, per dirla ironicamente, rispettabile. Ma la gente non sa e si fa fuorviare dalle banalità mediatiche. Ma mi fa ancora più male pensare di essere stato condannato per un reato infamante come il traffico di stupefacenti. Ho insegnato pedagogia e non posso morire con questa macchia, inventata di sana pianta». E allora? «Ho chiesto la revisione del processo, dopo che cinque collaboratori di giustizia, da Brusca a Siino, a Sinacori ed altri hanno sbugiardato Calcara. Mi sono rivolto all’avvocato Baldassare Lauria, il legale che ha ottenuto la revisione per l’ergastolano accusato ingiustamente della strage dei carabinieri di Alcamo Marina. Io credo nella Giustizia e in chi la onora con onestà intellettuale».