Alberto Alesina Francesco Giavazzi, Corriere della Sera 8/12/2013, 8 dicembre 2013
Mercoledì Enrico Letta presenterà al Parlamento il programma per la fase 2 del suo governo. Una fase che, con sempre maggior probabilità, durerà almeno un altro anno
Mercoledì Enrico Letta presenterà al Parlamento il programma per la fase 2 del suo governo. Una fase che, con sempre maggior probabilità, durerà almeno un altro anno. A sette mesi dal suo primo discorso alle Camere, impegni vaghi non bastano più. L’intervento del presidente del Consiglio in Parlamento del 29 aprile - con l’importante eccezione della promessa (poi mantenuta) di accelerare il rimborso dei debiti dello Stato verso le imprese private - era di una inaccettabile vaghezza. Sulle donne Enrico Letta disse: «La maggiore presenza delle donne nella vita economica, sociale e politica dà già straordinari contributi alla crescita del Paese, ma non siamo ancora un Paese delle pari opportunità. Occorre fare molto di più». Cioè? Il governo Monti aveva introdotto una prima differenziazione di genere nell’imposizione fiscale, consentendo alle imprese di dedurre 10.600 euro per ogni donna assunta a tempo indeterminato. Si vuole continuare su questa strada? Se sì come, con quali aliquote, sul reddito delle donne o su quello delle imprese che le assumono? Come verranno tassati i redditi familiari in modo da non scoraggiare il lavoro femminile? E sulla scuola disse: «Dobbiamo ridare entusiasmo e mezzi idonei agli educatori che in tante classi volgono il disagio in speranza e dobbiamo ridurre il ritardo rispetto all’Europa nelle percentuali di laureati e nella dispersione scolastica» . D’accordo, ma come? Andrea Ichino e Guido Tabellini nell’ebook del Corriere «Liberiamo la scuola» propongono di dare più autonomia ai singoli istituti. Il governo dice di essere d’accordo, ma il ministro Carrozza si muove nella direzione opposta. Ad esempio, pare aver deciso di cambiare strada riguardo alla valutazione delle scuole. Lo ha fatto sfruttando l’opportunità di nominare i cinque esperti del comitato che dovrà selezionare la rosa dei candidati alla presidenza dell’Invalsi, l’Istituto che organizza la valutazione delle scuole. Le persone scelte ritengono che questi test, sebbene normalmente utilizzati in molti altri Paesi, non siano di alcun aiuto nell’individuare eventuali situazioni patologiche nel nostro sistema scolastico, anzi siano dannosi perché figli di una deriva economicistica, quantitativa e irrispettosa delle non misurabili ricchezze spirituali degli individui e della complessità del lavoro di un docente! Sarà un caso, come ha scritto Andrea Ichino sul Corriere del 6 dicembre, ma le idee dei membri che il governo ha scelto per questo comitato sono molto vicine a quelle di quei sindacati che, da un lato, vogliono una scuola pubblica gestita direttamente dallo Stato e, dall’altro, rifiutano il diritto dello stesso Stato di misurare e valutare i risultati della sua gestione. E, a proposito di scuola, vogliamo riconoscere che, se non si inizia a insegnare ai bambini che copiare è immorale, che farsi fare i compiti da genitori troppo protettivi è altrettanto sbagliato, che seguire le regole deve essere una cosa naturale e automatica, non un optional , non faremo che produrre evasori fiscali? «La società della conoscenza si costruisce sui banchi delle università» . Immaginiamo che il presidente del Consiglio volesse dire «delle buone università». Nel 2013 il Fondo unico per il funzionamento delle università è stato ridotto di 300 milioni, un taglio che verrà probabilmente confermato per il prossimo anno. Da tempo ripetiamo che il problema dei nostri atenei non è la mancanza di fondi pubblici, ma la loro cattiva distribuzione, che differenzia troppo poco fra i dipartimenti eccellenti e quelli mediocri e non meritocratici. Lo strumento per differenziare esiste: è la valutazione effettuata dal ministero lo scorso anno. Ma invece di utilizzarla, il governo si appresta a distribuire il taglio di 300 milioni su tutti, indipendentemente dai risultati. Questo perché si ritiene che anche le università peggiori debbano essere salvate. Pensa il presidente del Consiglio che ce lo possiamo permettere? Che possiamo sacrificare l’università di Padova (la migliore, secondo queste valutazioni) per salvare la peggiore, Messina? Non è forse giunto il momento di dare più autonomia alle università premiando le migliori e costringendo le peggiori a impegnarsi di più, oppure chiudere? Altrimenti, dove sta la meritocrazia tanto sbandierata da Enrico Letta? Se ci vuole più autonomia nelle scuole, a fortiori ci vuole più autonomia nelle università. Finché un professore sessantenne che da vent’anni non fa più ricerca e poco si vede nelle aule è pagato per legge più di un trentenne che potrebbe andarsene nelle migliori università americane, non diventeremo mai una «società della conoscenza». Semmai contribuiremo a costruirla altrove, come sempre più spesso i nostri bravissimi scienziati già fanno. Expo 2015, la società che dovrà gestire l’Esposizione universale di Milano, grazie a un accordo con i sindacati potrà stipulare 800 contratti di lavoro improntati a una maggiore flessibilità, in deroga alle attuali norme sul lavoro. In un tweet il presidente del Consiglio ha scritto: «Ottima intesa sul lavoro. Expo laboratorio per l’economia» . Si impegna a trasferire quel modello ai contratti nazionali? Che cosa ha in mente di preciso per il mercato del lavoro? Economisti e giuslavoristi come Olivier Blanchard del Fondo monetario internazionale o il nostro Pietro Ichino hanno proposto varie alternative su come coniugare flessibilità e protezione. Quale strada intende adottare? «Dobbiamo evitare di continuare a mettere la testa sotto la sabbia come struzzi e riconoscere che il divario tra Nord e Sud del Paese è non un accidente storico o una condanna, ma il prodotto di decenni di inadempienze da parte delle classi dirigenti nazionali e locali» . Quali proposte? Vogliamo riconoscere che il problema del Mezzogiorno deriva da decenni di assistenzialismo che ha sostituito l’impiego pubblico all’iniziativa privata? Abbia il coraggio di dire che quello del Sud non è un problema di risorse (anche quelle già stanziate spesso non vengono spese). Per ricostruire il Mezzogiorno, perché di questo si tratta, si deve ripartire dal rispetto delle regole, cominciando dalla classe dirigente. Il controllo del territorio è una delle prime e decisive condizioni per far ripartire investimenti e sviluppo. Lo spiegano con grande coraggio Sergio Rizzo e Gian Antonio Stella in «Se muore il Sud». Il governo ha nominato un commissario alla Revisione della spesa pubblica, Carlo Cottarelli, con una pluriennale esperienza al Fondo monetario internazionale, proprio nel campo dei conti pubblici. Ottima scelta. Ma nessuna impresa assumerebbe un dirigente senza assegnargli traguardi precisi. Il documento di indirizzo del governo pone un obiettivo di risparmio pari ad almeno due punti di Pil (circa 32 miliardi) entro il 2016, con tagli significativi anche nel 2014 e 2015. Che significa? Qual è l’ammontare dei tagli che il commissario deve realizzare nel 2014 e nel 2015? E il governo si impegna a sostenere le proposte del commissario? E a impiegare ogni euro risparmiato per ridurre la pressione fiscale? Di che strumenti dispone il commissario per realizzare questi tagli? Altrimenti, il suo sarà un esercizio accademico destinato, come i precedenti, a rimanere lettera morta. Le revisioni della spesa erano iniziate nel 2006 con il ministro Padoa-Schioppa, sono continuate nel governo Monti, ora ne abbiamo un’altra. Ma, appena si parla di tagliare qualcosa, ecco un’alzata di scudi che spesso parte dalla burocrazia, se non da membri dello stesso governo. Ci permettiamo un suggerimento al presidente del Consiglio: cominci a tagliare i costi della politica per dare un segnale di serietà. Il professor Roberto Perotti su www.lavoce.info stima i possibili risparmi in 2 miliardi e mezzo di euro. Se anche fossero meno, si dia un segnale forte. Perché altrimenti qualunque lobby toccata dai tagli alla spesa potrà dire in sua difesa: «Perché non si comincia dalla lobby dei politici»? E a proposito di dirigenti e manager pubblici o comunque designati dal governo, vogliamo identificarli sulla base delle loro capacità tecniche e della loro imparzialità? Si impegna il presidente del Consiglio a rivolgersi, per ogni nomina, a società internazionali di «cacciatori di teste», rendendo pubbliche le procedure? Il premier Letta parla spesso di crescita ed equità. Come intende riformare il sistema fiscale per raggiungere questo obiettivo? Ad esempio, confermerà la Tobin tax, un’imposta su alcune transazioni finanziarie e che produce poco reddito con l’unico effetto di dirottare attività finanziarie a Londra, riducendo opportunità di impiego e crescita, come sta accadendo in Francia? Vogliamo chiarire una volta per tutte come verranno tassati gli immobili? Riguardo all’equità, come vogliamo riformare il nostro sistema di sicurezza sociale in modo che promuova al tempo stesso flessibilità nel mercato del lavoro e protezione per chi lo ha perso? È pronto, il presidente del Consiglio, a sostituire la cassa integrazione - che difende i posti di lavoro, anche se in imprese improduttive - con sussidi di disoccupazione che proteggono i lavoratori, come accade quasi ovunque nel mondo? Che cosa pensa di fare il governo per la giustizia? Come intende ridurre i suoi tempi? Esistono vari studi, ad esempio di Daniela Marchesi e Andrea Ichino, che illustrano riforme a costo zero che riorganizzando il lavoro dei giudici accelererebbero significativamente i tempi di giudizio. L’Italia è in prima linea sull’immigrazione. Quest’ultima fa bene se non è clandestina e se si accolgono persone con elevato capitale umano. Molti Paesi, ad esempio Stati Uniti, Canada, Nuova Zelanda, Australia, hanno beneficiato enormemente di un’immigrazione ad alto capitale umano. Noi, invece di importarlo, lo esportiamo. Mercoledì Enrico Letta ci deve dare numeri, proposte precise, indicazioni concrete su quali norme varerà e come eviterà che esse si arenino nella palude istituzionale di Parlamento e burocrazia. E a proposito di concretezza gli suggeriamo dieci argomenti di riflessione. - Come intende ridurre i costi della politica, dal primo gennaio, non fra tre anni? (In giugno promise che lo avrebbe fatto entro sei mesi: scadono fra tre settimane). - Con quali mezzi combatterà l’evasione fiscale? Si impegna a tradurre ogni euro recuperato dall’evasione in riduzioni di aliquote dei contribuenti onesti? - Continuerà ad usare il fisco per favorire il lavoro femminile? - Si impegna a riconoscere che quello dell’Invalsi è stato un passo falso e conferma la strada della valutazione, utilizzandola per introdurre premi e penalità per scuole, università e insegnanti? - Quali sono gli obiettivi numerici per i tagli di spesa da attuare nel 2014 e 2015? - In che modo intende tassare gli immobili? - Confermerà la Tobin tax ? A quanto stima il gettito di questa imposta? - Quali aziende pubbliche, nazionali o locali, intende privatizzare? Con quali procedure? - Come pensa di riformare il mercato del lavoro? - Quali politiche intende seguire per l’immigrazione? Enrico Letta deve assumere impegni precisi, che consentano agli elettori, fra uno o due anni, di poter valutare il suo governo. Nessuno pretende infallibilità. Ma nel momento in cui il presidente del Consiglio chiede agli italiani più meritocrazia, anche lui deve poter essere valutato. Meglio un governo che raggiunge la metà degli obiettivi che si è posto di uno che obiettivi non ne ha e quindi può dichiararsi comunque vincitore.