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 2013  dicembre 08 Domenica calendario

VARESE

Leggenda vuole che a una conferenza di storia dell’arte anziché osservare le opere proiettate sullo schermo James Turrell si perdesse nel fascio luminoso che usciva dal proiettore, tra i granelli di polvere che galleggiavano in sospensione. Nacque forse quel giorno la passione per la luce di questo settantenne californiano di Los Angeles, il più interessante esponente di “Light and Space”, il movimento della West Coast che alla fine degli anni Sessanta scelse come materiale da plasmare, appunto, la luce e lo spazio. «In realtà la mia passione credo nacque anche molto prima, quando ero ancora bambino e giocavo con le ombre: fu allora che capii che volevo lavorare con la luce, quella vera. È una passione che ancora oggi cresce e prende forma giorno dopo giorno, direi minuto dopo minuto, e poi quando meno te l’aspetti arriva un’intuizione, un’emozione intensa che ti indirizza».
Turrell sembra un cowboy contemporaneo, viso intenso, occhi profondi e una folta barba grigia. Lo incontriamo a Varese, a Villa Panza, per la grande mostra realizzata dal Fondo ambiente italiano, con il Los Angeles County Museum of Arts, il Guggenheim di New York e il Getty Research di Los Angeles, in quella che era la casa del Conte Giuseppe
Panza di Biumo, fra i primi collezionisti e sostenitori dell’artista. «Mio padre era un ingegnere aeronautico, pilota e appassionato d’aerei. Un giorno stavamo viaggiando da Las Vegas a Los Angeles. Arrivammo verso il tramonto, nell’attimo in cui la luce da rosa diventa rossa, e poi viola e infine blu. In quello stesso momento la città iniziava a brillare nella penombra, mentre le luci si accendevano e disegnavano strade e isolati a perdita d’occhio. Fu emozionante. Ecco: lì, quella sera, ho avuto l’esatta percezione della potenza della luce ». La stessa con cui la scorsa estate ha trasfigurato la spirale tonda del Guggenheim di New York, e affascinato migliaia di visitatori inchiodandoli per ore all’interno del museo a sperimentare un’avvolgente esperienza percettiva. «Con la luce puoi trasformare gli ambienti, costruirli, inventarli, o anche nasconderli ».
Lo fa da tutta la vita. Dalla prima mostra al Pasadena Art Museum, quando aveva poco più di trent’anni, al Roden Crater, il progetto titanico che l’ha portato a cercare un vulcano estinto, a trovare i fondi per acquistarlo e a trasformarlo poi in una sorta di camera oscura monumentale con cui catturare i raggi del sole e la luce della luna. È lì, nel Painted Desert, a quaranta miglia da Flagstaff, Arizona, la città attraversata dalla mitica Route 66, che da più di trent’anni Turrell passa sei mesi all’anno a studiare e sperimentare luce e spazi, a osservare i cieli e i fenomeni atmosferici da stanze sotterranee studiate per inquadrare il passaggio veloce delle nuvole, gli spostamenti delle costellazioni, le ombre della luna, le inclinazioni dei raggi solari. I pochi che ci sono stati lo descrivono come un luogo unico. Ambienti come “The Crater’s Eye” o il “Sun and Moon Space” sono orientati in modo che le aperture verso l’esterno coincidano con particolari condizioni astronomiche. «Roden Crater è un luogo magico, mistico. Collega il cielo al centro della Terra dandoti la sensazione di trovarti sulla superficie del pianeta, di far parte di uno spazio cosmico dove percepire lo scorrere del tempo, respirare le ere geologiche». Romantico? «Non più di quanto potessero esserlo gli Egizi o i Greci» ride Turrell «e non più di quanto lo siano state tutte quelle civiltà che consideravano i vulcani punti di riferimento, tanto da sfidare
il pericolo pur di insediarvisi accanto. Pensi a Pompei».
Nel 1966 l’artista aveva affittato per trasformarlo in studio un hotel dismesso, il Mendota, a Santa Monica. «Stava in Ocean Park district, a un miglio da Venice Beach, era un posto poco costoso, nessuno voleva stare lì, ma io solo lì avrei potuto permettermi un grande studio». Sfrattato, sei anni dopo seguì le orme del padre e iniziò a volare con un piccolo aereo. «Volavo ogni giorno, al tramonto e all’alba. La percezione dello spazio e della luce che hai quando ci sei dentro, quando sei sospeso nell’aria, è completamente diversa da quella che hai stando a terra. E fu volando sul deserto che per la prima volta vidi il Roden Crater. Era il luogo che avevo sempre cercato. Aveva tutto ciò di cui avevo bisogno: il buio totale della notte per poter osservare la luce del cielo, e il sole
pieno del giorno. Soprattutto era un luogo incontaminato, lontano dalla civiltà ». Ha sempre pensato in grande Turrell. Visionario e determinato, ha dato forma al suo sogno. Ha cercato finanziatori e sostenitori per acquistare il vulcano, e li ha trovati. Prima la Dia Foundation del Texas e il Guggenheim di New York, poi un collezionista come Giuseppe Panza di Biumo, poi molti altri ancora, tanto che oggi il suo sito ospita un’apposita sezione intitolata “Friends of Roden Crater”.
«Per me la luce ha una qualità fisica, tangibile, concreta. Non è solo una questione di illuminare qualcosa, come avviene nella pittura, ma di creare uno spazio. Per questo avevo bisogno di un luogo in cui concentrarla. Gli ambienti che ho ricavato nel vulcano e che continuo a realizzare sono luoghi dove accogliere la luce, dove ritagliare parti di cieli. Ho sempre amato gli artisti che hanno dipinto la luce, come Caravaggio, Vermeer, Rembrandt, Goya, e poi gli Impressionisti e gli Espressionisti Astratti della Scuola di New York. Ma la mia ambizione è usare la luce vera in uno spazio vero».
Iniziò tutto proprio al Mendota Hotel. «In quel periodo utilizzavo un proiettore ad alta intensità e iniziai a realizzare una serie di opere in cui creavo volumi geometrici di luce mentre dissolvevo lo spazio intorno». Comincia così a creare ambienti fatti solo di luce. All’inizio erano proiezioni in interni, realizzate con le tecniche ancora limitate degli anni Settanta. Oggi sono ambienti ottenuti con sofisticatissime tecnologie in grado di trasfigurare letteralmente le architetture. E col tempo le installazioni luminose si sono aperte anche all’esterno. Sono nati così gli
Skyscapes,
i “Paesaggi di cielo”. Uno dei primi, datato 1974, è in una sala sublime di Villa Panza, dove James Turrell con altri artisti californiani fu ospite in quegli anni. «Panza di Biumo è stato uno dei primi collezionisti a sostenere la scuola californiana, è venuto spesso in California, è stato nel mio studio, ha acquistato diverse opere mie e poi di altri come Bruce Nauman, Robert Irwin, Walter De Maria, Robert Ryman. E dato che le nostre opere erano progetti
site specific,
realizzati appositamente per un luogo, mi ha invitato a Varese» ricorda. Il suo
Skyscape
a Villa Panza ha un notevole impatto. È una piccola stanza
bianca con il soffitto aperto che inquadra una sezione di cielo per indirizzare l’attenzione a fenomeni minimi eppure cosmici. L’apertura sul cielo ha un’inclinazione e uno studio della luce tali da creare un’illusione di bidimensionalità, come se si stesse osservando un quadro. Bisogna sbattere le palpebre, aprire e chiudere gli occhi per rivederlo. «È proprio questa doppia possibilità di visione, quest’illusione, che rende ancora più concreta la percezione del cielo, delle nuvole e dei fenomeni atmosferici che sembrano illusioni e invece sono autentici».
Ricorda i giorni in cui venne qui per il suo
Skyscape:
«Per me fu un’esperienza straordinaria. Ho potuto persino volare. Se l’immagina? Mio padre mi aveva parlato molto dell’industria aeronautica italiana, e una volta arrivato a Biumo scoprii che vicino alla Villa c’erano ben quattro aziende che costruivano aerei. La Caproni aveva appena realizzato il Calif, un biposto eccezionale. L’ho provato più volte, e ho sperimentato di nuovo, anche qui, quella magnifica sensazione di fluttuare libero nello spazio e nella luce». La stessa sensazione che si prova entrando in
Ganzfeld,
nella Scuderia Grande di Villa Panza, un ambiente di luce dove ogni punto di riferimento si dissolve per introdurre il pubblico in una dimensione eterea. All’ingresso ha scritto: “Non sono un artista della terra, sono completamente coinvolto nel cielo”.