Ernesto Galli della Loggia, Corriere della Sera 8/12/2013, 8 dicembre 2013
Rallegrarsi come è giusto perché la Corte costituzionale ha cancellato il Porcellum sulla base di quanto stabilito dalla Costituzione non vuol dire che allora questa, però, non si presti in alcune sue parti ad un uso strumentale che rischia di snaturarne il significato
Rallegrarsi come è giusto perché la Corte costituzionale ha cancellato il Porcellum sulla base di quanto stabilito dalla Costituzione non vuol dire che allora questa, però, non si presti in alcune sue parti ad un uso strumentale che rischia di snaturarne il significato. E che quindi, se mai fosse possibile, almeno per ciò essa andrebbe modificata. Ce lo fa capire come meglio non si potrebbe Paolo Flores d’Arcais, in un recentissimo numero di Micromega. Naturalmente a modo suo, e cioè tessendo un’entusiastica apologia della Carta e deplorandone la «mancata attuazione». («Realizzare la Costituzione» s’intitolano il numero e l’articolo, e a rendere più chiaro il concetto le parole sono accompagnate dalla nota immagine — peraltro falsa come si sa — di tre giovani partigiane che ci guardano dalla copertina tenendoci un mitra puntato addosso). Ciò su cui Flores non si stanca d’insistere è che la Costituzione italiana non è tanto una Costituzione bensì «un programma politico più che mai attuale», anzi «di stringente attualità»: addirittura «la cura adeguata per i mali dell’Occidente». Che cosa significa? Prendiamo per esempio l’articolo 3 sul diritto al lavoro. Ebbene, esso costituisce, scrive Flores, un impegno «niente affatto generico bensì tassativo per tutti i governi, che altrimenti diventerebbero estranei e nemici della Repubblica». Non solo: ma visto che l’art. 36 prescrive altresì che «il lavoratore ha diritto ad una retribuzione sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un’esistenza libera e dignitosa», anche qui, deduce l’autore, «ogni salario che non lo garantisce è anticostituzionale». E così via di seguito: «è contro la Costituzione — per fare un altro esempio — ogni politica che non assicuri a tutti gli asili nido» (a tutti i bambini, immagino); per non dire degli articoli 1 e 4 che, sempre ad avviso di Flores, sancirebbero «l’ostilità alla Repubblica di ogni politica che non abbia al primo posto la scomparsa della disoccupazione»; o l’art. 42 che subordina «senza se e senza ma» il profitto a una non meglio determinata «funzione sociale». Il bello è che dopo aver proclamato il carattere strettamente politico-programmatico della Carta, Flores tuttavia, non rendendosi conto della contraddizione evidente, afferma che ciò nonostante essa «dovrebbe essere l’orizzonte comune del Paese, la trama condivisa di valori» sentita come tale anche dalle «forze politiche contrapposte». Se non lo è, vuol dire — si noti il modo di ragionare dell’autore — che allora la Costituzione stessa «è stata tradita, vuol dire che l’altra parte (cioè quella in disaccordo con le opinioni costituzionali di Flores) è già eversiva di quell’orizzonte comune, è già in “guerra civile”». E poiché la nostra Costituzione è una «Costituzione antifascista» ne discende — prosegue il discorso — che la parte riottosa ai suoi precetti non può naturalmente che essere «il fascismo»: a dispetto del fatto — aggiunge Flores con il suo abituale lessico da Comitato di Salute pubblica — che con il 25 aprile «tutta la nazione abbia deciso che su di esso dovesse abbattersi la damnatio memoriae» . Ancora un’ultima citazione per intendere tutta la limpidezza dell’argomentazione: «Se la Costituzione repubblicana resta una bandiera di parte, vuol dire che il fascismo ancora non è stato sepolto, non è stato archiviato nella cloaca della sua storia (...), che dunque un fascismo vivo e vegeto proietta ancora la sua ombra, l’ossequio al potere in spregio e in censura ai fatti». Insomma: chi a dispetto della Carta pensasse, mettiamo, che il livello del salario debba essere legato alla produttività, o, per dirne altre, che la lotta alla disoccupazione debba necessariamente sottostare a certi vincoli, o, ancora, che assicurare l’asilo indistintamente a tutti i bambini non possa farsi sempre e comunque per via della spesa eventualmente insostenibile: ebbene, chi pensasse cose simili non sarebbe solo una persona ragionevole o al più, se si vuole, di orientamento conservatore. No: secondo il direttore di Micromega e il suo sobrio lessico egli sarebbe né più né meno che «contro la Costituzione», un «nemico della Repubblica», un «fascista» da mettere al bando. Il tutto, per l’appunto in nome dell’ «attuazione della Costituzione». Mi chiedo che cosa pensino Stefano Rodotà, Gustavo Zagrebelsky o Sandra Bonsanti o don Luigi Ciotti, e tante altre persone che come loro si sono battute in questi ultimi tempi in «difesa della Costituzione», che cosa pensino, dicevo, di queste forsennate conseguenze del loro impegno. Le condividono? È questa la Costituzione, è questa la sua interpretazione che vogliono difendere? In base alla quale bisognerebbe considerare fascista, tanto per dire, la signora Thatcher e molti degli editorialisti di questo giornale? O mettere fuori legge il cancelliere Schröder per la sua politica non proprio filo-sindacale? Credo e spero di no. Ma le forsennatezze diciamo così teoriche di Flores — che pure dirige la rivista a cui le persone di cui sopra collaborano con particolare frequenza — dicono qualcosa di importante, di cui esse pure, forse, farebbero bene a occuparsi. E cioè che effettivamente, a motivo di una dizione perentoriamente ancorché astrattamente(prescrivere senza comminare sanzioni lascia il tempo che trova) prescrittiva, molti degli articoli della nostra Costituzione — specie quelli del Titolo II e III — si prestano troppo facilmente ad essere interpretati come un obbligatorio programma di governo. Non è un’idea nuova peraltro: già mezzo secolo fa un autorevole costituente comunista, Renzo Laconi, affermava testualmente che la Carta costituiva «un vero e proprio programma politico che impegna unitariamente tanto l’opposizione che la maggioranza» , riecheggiando le parole ancora più drastiche pronunciate da Togliatti durante i lavori della Costituente allorché aveva detto: «Tutti coloro che accettano questa Costituzione come fondamento della vita politica italiana devono essere impegnati a muoversi sulla via del rinnovamento economico e sociale». Esattamente ciò che sostiene il «libertario» Flores oggi. Ma la domanda che tutto ciò solleva con forza è sempre la stessa: che ne è di chi per avventura non condivide tale rinnovamento? Che ne è nella Repubblica democratica di chi invece si trova ad avere un punto di vista conservatore o semplicemente moderato (cioè di una buona metà degli italiani?): è fuori della Costituzione? è un «fascista»? o che cosa? In realtà, è evidente che la concezione politico-programmatica della Carta come quella che Flores sostiene non può che essere, essa sì, ferocemente divisiva del Paese. Essa sì è eversiva alla radice dell’ordine repubblicano. Essa sì è la premessa per una sorta di guerra civile. Tale concezione, infatti, mira a null’altro che a trasferire le divergenze di opinione e di programmi tra i partiti dal terreno legittimo dello scontro politico democratico a quello della legalità costituzionale. Con ciò dunque esasperando quelle divergenze, facendone motivo di scomunica a priori dell’avversario, e riponendo le proprie speranze anziché nella sua sconfitta elettorale nella sua messa al bando per decreto. L’odierna geremiade sulla non avvenuta attuazione degli inattuabili articoli della Costituzione serve precisamente a questo: a perpetuare l’uso della Costituzione stessa come arma della battaglia politica, travestendo ipocritamente le opzioni ideologiche di una parte nella disinteressata devozione alla legge suprema. Ed è per questo, come si capisce, che chi vuole continuare a servirsi di uno strumento così comodo non si stanca anche di sostenerne l’intangibilità in saecula saeculorum. Ernesto Galli della Loggia