Sergio Romano, Corriere della Sera 8/12/2013, 8 dicembre 2013
Se non ricordo male in una risposta alle lettere dei lettori lei ha citato una domanda che de Gaulle pose a Malraux a proposito della responsabilità degli «intellettuali», citata da uno dei colloqui occorsi tra i due personaggi
Se non ricordo male in una risposta alle lettere dei lettori lei ha citato una domanda che de Gaulle pose a Malraux a proposito della responsabilità degli «intellettuali», citata da uno dei colloqui occorsi tra i due personaggi. Sa dirmi se quei colloqui furono raccolti in volume e tradotti in italiano? Marco Pistarino marcopistarino@ gmail.com Caro Pistarino L a conversazione è quella che Malraux ebbe con de Gaulle, probabilmente nel dicembre del 1969. Il generale si era dimesso alle 11 della sera del 28 aprile di quell’anno, non appena aveva appreso il fallimento del referendum da lui voluto sulla regionalizzazione dello Stato francese. Aveva lasciato il palazzo dell’Eliseo (sede della presidenza della Repubblica) alle 12 del giorno seguente, aveva trascorso due settimane nella campagna irlandese e si era ritirato in una casa di campagna a Colombey-les-deux-Eglises, nella regione Champagne-Ardenne, che aveva comperato prima della Seconda guerra mondiale. Da allora non aveva fatto dichiarazioni, rilasciato interviste, pronunciato discorsi. Era dominato da una preoccupazione quasi ossessiva: evitare che il suo nome venisse coinvolto nelle vicende della Francia contemporanea. Ciò che egli aveva fatto per il suo Paese apparteneva alla storia e non doveva essere confuso con quanto sarebbe accaduto dopo la sua partenza. Nessuno avrebbe avuto il diritto di collocarsi sotto le sue ali o pretendere di essere il suo successore. Ebbi l’impressione allora che de Gaulle desse per scontato il ritorno dei francesi alle loro cattive abitudini e, segretamente, se ne compiacesse. Il declino del Paese che il generale aveva risollevato dall’umiliazione della sconfitta avrebbe confermato l’eccezionalità della sua apparizione nel firmamento della storia nazionale. La conversazione con Malraux, quindi, è una sorta di testamento affidato alla penna di uno scrittore per cui de Gaulle sembrava avere una particolare considerazione. Lo aveva nominato ministro della Propaganda e dell’informazione nel novembre 1945, all’epoca del suo primo governo, e gli aveva affidato il ministero della Cultura dopo il ritorno al potere nel maggio 1958. Da quel momento Malraux era diventato l’oratore ufficiale della V Repubblica, il gran maestro delle cerimonie repubblicane, l’ambasciatore straordinario che il generale inviava nel mondo quando voleva trasmettere ai grandi della terra un messaggio non soltanto strettamente politico. Malraux, dal canto suo, aveva un concetto di sé non inferiore al sentimento che il generale provava per la propria persona. La conversazione durò qualche ora e fu una gara verbale fra due straordinari narcisi. Parlarono di filosofia e di storia, di grandi religioni e grandi civiltà, di ascesa e declino dei grandi imperi, di Luigi XIV e Bismarck di Napoleone e Shakespeare, di Churchill e Diderot, di Stalin e Lenin. Le ombre di tutti i grandi protagonisti della storia umana attraversarono la biblioteca di Colombey-les-deux-Eglises durante un dialogo in cui è spesso difficile distinguere le parole di de Gaulle da quelle di Malraux. Lo scrittore disse che il racconto della conversazione era destinato a fare parte di un’opera maggiore, le «Antimémoires». Ma la penna gli era scappata di mano e il racconto divenne un libro che apparve presso Gallimard nel marzo 1971, quattro mesi dopo la morte del generale. S’intitola «Les chênes qu’on abat»(le querce che vengono abbattute), da un’ode di Victor Hugo in memoria di Théophile Gautier: «Oh quel farouche bruit font dans le crépuscule les chênes qu’on abat pour le bûcher d’Hercule» (oh quale selvaggio rumore fanno nel crepuscolo le querce abbattute per il rogo di Ercole). Per quanto mi risulta il libro non è stato tradotto in italiano.