Davide Coppo, Ultimouomo.com 2/12/2013, 2 dicembre 2013
UNA STATUA PER GIGI
Non è facile scrivere qualcosa su Gianluigi Buffon. Perché, innanzitutto, il giudizio collettivo è già stato dato, ed è lo stesso (ma al contrario) giudizio collettivo che si dà a un boia o a un tiranno decaduto, cioè è positivo ad ogni costo, sempre inappellabile, scolpito nel marmo della memoria e dell’orgoglio nazionale. Buffon, per gli italiani, è il portiere più forte del mondo, probabilmente di sempre. È il coraggioso, lo sprezzante e l’indomito. È anche stato raccontato, in maniera più o meno intima, centinaia di volte: le scommesse, la depressione, il matrimonio, i figli, gli scudetti. Lui, è ovvio, si rialza sempre. Di Buffon rimane una maschera, ed è una maschera che è impossibile da togliere, è la maschera del personaggio coraggioso, dello sprezzante e dell’indomito. Buffon non sbaglia mai, e non è mai insicuro. Buffon non le manda a dire a nessuno. Buffon è sempre a testa alta. Buffon è un “uomo vero”. E via dicendo. Per questo è difficile scrivere di Buffon. Perché ha recitato così bene la parte dell’eroe, o di quel particolare tipo di eroe. Jorge Luis Borges, ne L’Aleph, scrive un racconto intitolato “L’altra morte”, in cui si legge: «Un uomo tormentato dal ricordo d’un atto di codardia è più complesso e più interessante di un uomo semplicemente coraggioso. Il gaucho Martín Fierro, pensai, è meno memorabile di Lord Jim o di Razumov». Lord Jim è il protagonista dell’omonimo romanzo di Conrad, giovane marinaio inglese che abbandona la sua nave durante una tempesta, macchiandosi di paura e di vergogna; Razumov è il protagonista di Con gli occhi dell’occidente, ancora di Conrad, studente russo che tradisce un amico anarchico che a lui si era affidato, e deve affrontare l’ombra della colpa. Martín Fierro è invece l’eroe letterario nazionale argentino, protagonista dell’omonimo poema epico, gaucho fiero e senza paura. “Uomo vero”, come direbbero alcuni. Buffon è semplicemente coraggioso, come dice Borges di Martín Fierro. E allora l’unica cosa che mi rimane da fare è il racconto di Buffon il portiere, senza concedere nulla alla vita fuori dal campo, a un’empatia che non può esistere in un uomo che ha deciso da subito di essere eroe ed è già ora un monumento (inattaccabile) a se stesso.
Gianluigi Buffon, forse il portiere più forte del mondo, nasce da un classico caso di sliding doors, come è capitato a moltissimi altri portieri. Ad esempio a Giuseppe Moro, grande (e folle) numero 1 del dopoguerra italiano, che imparò a tuffarsi sul fronte siciliano per ripararsi dai bombardamenti aerei. Gianluigi Buffon, nato a Carrara a gennaio 1978, cresce a La Spezia e gioca nel Canaletto. Ha meno di dieci anni e fa il centrocampista, anche se in una foto di squadra, scattata in un giorno d’inverno e di sole del 1986, è il più alto della squadra. Non c’è, in questa foto, nessun dettaglio da cui si possa trarre un banale o scontato “già si vedeva che…”: il bambino Buffon è soltanto alto, e come tutti gli altri suoi compagni ha le braccia incrociate, forse per il freddo, e indossa la maglietta gialla e rossa della società spezzina. Gioca poi nel Perticata, di nuovo vicino a Carrara, poi nel Bonascola, e il 13 giugno del 1991 lo acquista il Parma per 15 milioni di lire. Acquista Gianluigi Buffon, tredicenne centrocampista. Pensateci un attimo: doveva essere un eccellente centrocampista, per finire al Parma a tredici anni per quella cifra. L’anno dopo arriva la classica curva del destino: si infortunano tutti i portieri dei ducali, e dopo due settimane Buffon è titolare tra i pali. Ha tre anni per imparare un ruolo, prima della sua “prima” in Serie A, anche se lui non lo sa ancora.
Esordisce nel 1995, in un Parma-Milan in cui in campo ci sono giocatori che, a leggerne i nomi, d’istinto sembrano appartenere a un’epoca storica e calcistica molto anteriore a quella di Gianluigi Buffon: nel Parma giocano Stoichkov, Zola, Dino Baggio, nel Milan Eranio, Desailly, Weah che non ha ancora vinto il Pallone d’oro. È il 19 novembre, nona giornata di Serie A, in Emilia c’è il sole chiaro e luminoso dell’autunno, le due squadre sono prime in classifica a pari punti, venti a testa. Luca Bucci, portiere del Parma, è infortunato. Nevio Scala dovrebbe scegliere Alessandro Nista, un trentenne con una carriera divisa tra Pisa, Leeds United e cinque stagioni all’Ancona più in Serie B che in Serie A. Sceglie invece Gianluigi Buffon, il portiere della Primavera, un diciassettenne sconosciuto ai più. Nella cronaca della partita, andata in onda su Rai Tre, il commentatore utilizza termini quasi breriani e oggi molto polverosi come “calci franchi” per indicare le punizioni, e “sganassone” per un contatto al limite del fallo. Buffon fa tre grandi parate, le prime due nel primo tempo: Eranio controlla la palla da solo davanti alla porta del Parma, e il diciassettenne esce in modo poco ortodosso eppure coraggiosissimo sui suoi piedi (allora non esisteva il termine, ma oggi si chiama “attacco alla palla” e lo si insegna); poi un lancio di Boban in verticale per la testa di Roberto Baggio, e Buffon ancora in uscita, ancora coraggioso e molto folle, riesce a respingerla e si arrabbia con la sua difesa, composta da Sensini, Cannavaro, Fernando Couto e Benarrivo. Nel secondo tempo Marco Simone, entrato al posto di Baggio, si ritrova la palla tra i piedi quasi nell’area piccola avversaria, spalle alla porta si gira e calcia senza fare troppo caso alla mira, e Buffon ci arriva. Non, come succede spesso, con le gambe, e con il tiro che arriva addosso al portiere. Si lancia sulla sua sinistra, perché la palla di Simone è angolata davvero, e Buffon fa il primo vero “miracolo” della sua carriera. Nelle interviste post partita gli chiedono subito del nonno, Lorenzo. Ti avrà dato qualche consiglio, dicono, un po’ scherzosi. Lui dice no, «anche perché, non lo dico per immodestia, non vado a chiedere in giro come si para». Poi dice, «forse sto ancora sognando, ma ho pensato di andare in campo con la Primavera, per quello non ho fatto male, ero tranquillo dentro». Ha diciassette anni ma ne dimostra dieci di più, e non per una formula retorica: è che Gianluigi Buffon, a guardarlo, quei diciassette anni li porta davvero male.
Buffon gioca 9 partite da titolare, poi torna Luca Bucci. Nel frattempo viene convocato dalla Nazionale Under-21, anche se ha già indossato la maglia azzurra con gli U-16, U-17 e U-18, e con quest’ultima ha raggiunto la finale dell’Europeo del 1995, disputato in Grecia. Con lui c’erano De Sanctis, Pirlo, Ambrosini, Baronio, Pesaresi, Totti, Ventola. Alla sua prima stagione gioca, tra campionato e Coppa Italia, 10 partite subendo 9 reti. L’anno dopo, il primo da titolare, va meglio: 29 partite, 21 gol subiti. In sei anni al Parma soltanto una volta vedrà il suo conto, come si dice, “in passivo”.
Salto in avanti all’ottobre 1997, quando Buffon ha diciannove anni ma è un’età poco importante, o troppo, a seconda di dove la si guarda: perché è il portiere titolare del Parma (all’epoca una delle “sette sorelle” del calcio italiano) dove ha già trascorso due stagioni e si appresta a iniziare la terza, e allora sembra che di anni ne abbia di più; oppure perché è il portiere titolare del Parma (all’epoca una delle “sette sorelle” del calcio italiano) dove ha già trascorso due stagioni e si appresta a iniziare la terza, e allora sembra ancora più stupefacente che un ragazzo così giovane sia già così forte e sicuro. Il 29 ottobre l’Italia, per gli spareggi di qualificazione al Mondiale di Francia 1998, deve giocare con la Russia. La gara di andata si gioca a Mosca, e Buffon è il secondo portiere, dopo Gianluca Pagliuca che all’epoca è anche il titolare dell’Inter che non vincerà, in quella stagione, lo scudetto “dello scandalo” o “del rigore di Iuliano”, a seconda di come si vogliono nominare le recriminazioni. A Mosca nevica e il campo è ghiacciato e bianco, e il pallone non è bianco ma arancione. Al minuto trentadue Pagliuca deve uscire rasoterra per intercettare un lungo lancio dei russi. Dalla parte opposta sta arrivando Kanchelskis, che si lancia in scivolata sul ghiaccio per arrivare prima del portiere italiano, ma fallisce e in più scivola sulla neve e non riesce a fermarsi, e finisce contro il suo ginocchio. Pagliuca deve uscire dal campo. Ha un cappello di lana, una fascia intorno al collo (vorrei scrivere scaldacollo, ma non è un termine esistente sulla Treccani) e i pantaloni lunghi. Lo portano fuori dal campo e viene sostituito dal numero 12, il diciannovenne Buffon, che non ha né cappello né fascia per il collo, e in più gioca con i pantaloncini corti. La partita finisce 1-1, e a segnare alle spalle di Buffon ci pensa il suo compagno nel Parma, Fabio Cannavaro, con un autogol. È l’inizio, ma ci vorrà ancora tempo perché diventi il portiere titolare. «Il peggior esordio che mi potesse capitare», ha detto lui, con riferimento al «tempo infame», all’importanza della partita, al fatto di essere stato «scaraventato in campo».
Nel marzo 1998 a Parma, tutto un altro clima, soleggiato, nasce il primo abbozzo del Buffon moderno, quello iconico, apparentemente insuperabile, che si fa chiamare “Superman”. La partita finisce 1-0 per il Parma con una rete di Hernan Crespo, ma il nodo gordiano della carriera di Buffon è nel rigore parato a Ronaldo, al minuto ventuno del secondo tempo. Ronaldo, che non ha sbagliato un rigore in tutta la stagione, lo tira sulla destra e se lo fa parare da Buffon. La palla rimane in gioco, arriva a Thuram che la allontana in attacco, ma Buffon non è già più in porta, è andato dietro, ad arrampicarsi sui cartelloni pubblicitari e sulle reti di protezione per esultare con la sua curva. Ronaldo ha ventun anni, Buffon venti. A fine partita Gianluigi si toglie la casacca del Parma e mostra, sotto, la t-shirt blu e rossa e gialla di Superman. Nasce il soprannome che lo accompagna per tutta la carriera. Gli chiedono cosa ha pensato dopo aver parato il rigore a Ronaldo, che aveva sì ventun anni, ma era già quasi del tutto “Ronaldo”, sinonimo di “il miglior calciatore del mondo”. Lui dice: «San Giovanni non fa inganni», il Corriere della Sera lo definisce «guascone» e «sbruffone» (simpaticamente) e ha ragione. Il fu Cavaliere Callisto Tanzi, quando gli chiedono se darà un premio al suo portiere, da buon padrone risponde che «Buffon è pagato per parare, gli basta lo stipendio». Il rapporto di Buffon con l’Inter è dei migliori, in termini di parate. Nella sua autobiografia, Numero 1, ce ne sono due fatte contro i nerazzurri nella classifica delle sue cinque migliori, stilata da lui stesso. La prima, al quarto posto, è del 1997, quando ancora portava il numero 12 sulla maglia, su Ciriaco Sforza. Simile a quella su Simone, all’esordio in A contro il Milan. Una girata dall’interno dell’area, un riflesso straordinario. Poi c’è quella, tecnicamente superiore per preparazione, su Recoba nel 2000. Al Bentegodi di Verona Parma e Inter si giocano l’ultimo posto utile per entrare in Champions League con uno spareggio. È l’ultima partita di Roberto Baggio con i nerazzurri, e segna due gol. Finisce 3-1 per l’Inter, e sulla prima rete di Baggio, una punizione dalla fascia destra della trequarti offensiva interista, Buffon è colpevole. Ma nel secondo tempo Álvaro Recoba fa partire un tiro che, girando, da centrale inizia a spostarsi verso l’incrocio dei pali. C’è quel momento di incredulità tipico delle parate più belle: vedi il pallone che viaggia in aria verso la rete, e non vedi nemmeno il portiere, troppo lontano per poterlo intercettare. Buffon si dà una leggera spinta sulle ginocchia, poi si lancia verso la sua destra. La palla curva, e lui si è staccato da terra, ma con le braccia lungo il corpo. Se allungasse il braccio destro, quello che normalmente si allunga in queste situazioni, non potrebbe fare niente. Allora tira su quello sinistro, quello di richiamo, e riesce a dare uno schiaffo alla palla, piccolo, ma esplosivo, per farle cambiare traiettoria. Atterra, prima di finire quel tuffo in una capriola da trapezista, elegante come un missile o come un acrobata. Roberto Baggio in panchina ha gli occhi spalancati e una mano sulla fronte.
Sempre di quegli anni è la sua preferita tra tutte le parate. È in un’amichevole, eppure. Credo che la scelta di Buffon sia ancora una volta la prova dell’unicità del ruolo del portiere, un ruolo che negli ultimi vent’anni in Italia è sinonimo del cognome di Gianluigi. Parare è, in certi casi, uno sport estremo: è superare i propri limiti, è volare, è paracadutarsi. Non ha niente a che fare con la preparazione e la freddezza di un passaggio o di un tiro. Contro il Paraguay, Buffon è puro istinto. Non è un intervento “bello”, come era stato bello quello su Recoba. Questo è sgraziato, è una mano che si alza improvvisa mentre il corpo è quasi rannicchiato in fase di atterraggio, nella confusione dell’area di rigore piena di uomini e piedi e teste che si muovono, è una decisione fatta all’ultimo secondo perché la palla è deviata e cambia direzione. È banale dire “felino”, ed è banale dire anche “zampata”. Però sono le due parole che più si adattano a questo salvataggio inconcepibile, che deve andare ad appropriarsi di altre categorie della natura, fuori da quelle umane, per tentare di definirsi. In poche parole: la palla lo scavalca, lui va a riprenderla e la caccia fuori dalla porta, un po’ accompagnata un po’ respinta. Poi, come al solito, si gira verso i tifosi dietro di lui per urlare la liberazione.
Prima di andare alla Juventus, Gianluigi Buffon impara a vincere: la Coppa Italia del 1999, in finale contro la Fiorentina, con lui che esulta facendo “l’aeroplano” come Montella quando Vanoli realizza al Franchi, nella partita di ritorno, il pareggio (2-2) definitivo che regala la vittoria al Parma. Poi la Coppa Uefa, lo stesso anno, 3-0 contro il Marsiglia con gol di Crespo, ancora Vanoli, Chiesa. Impara anche a farsi fraintendere, e a fare polemica, suo malgrado. Prima la questione della maglia con la scritta «boia chi molla» per spronare compagni, tifosi e società a lottare fino alla fine. «Scritta letta su un banco del collegio intagliata nel legno», dice lui, che giura di essere all’oscuro di ogni significato politico. Poi la scelta del numero 88, subito ritrattato in 77. L’88 è caro ai neo-nazisti a causa della posizione dell’ottava lettera dell’alfabeto, e in uno strano gioco di codici segreti otto e otto diventano acca e acca, e acca e acca diventano Heil Hitler. Buffon sostiene che avrebbe voluto avere lo 00, indicante “due palle” da mettere in ogni situazione, ma il regolamento lo vieta, così come vieta anche la 01, che voleva in onore di General Lee, la Dodge di Dukes of Hazzard. Sceglie per le quattro palle, allora, e sceglie l’88.
Quando la Juventus lo acquista, nell’estate del 2001, non si parla più dei numeri di maglia ma di quelli dei bonifici che si scambiano Juventus, Parma, Lazio e Real Madrid. Vengono spesi, per l’ultima volta prima del cambio della valuta in Europa, centinaia di miliardi di lire. 105 sono quelli che permettono a Buffon di lasciare Parma dopo quasi dieci anni per andare a Torino, ma ci sono anche i 70 per Thuram, i 25 per Salas e i 70 per Nedvěd. Al Real Madrid invece va Zidane, per 150 miliardi, litigando un bel po’ con la dirigenza bianconera (a rileggere i quotidiani di allora). «Se ci penso, non scendo nemmeno in campo»,dice Gigi dal ritiro di Châtillon, in riferimento ai cento e più miliardi il cui peso, secondo qualcuno, “deve portare sulle spalle”. I giornali di allora parlano di eredità pesanti: quella di Tacconi, di Peruzzi, di Zoff. Viene da sorridere, oggi, a leggere i nomi che avrebbero dovuto spaventare il ventitreenne Gianluigi Buffon che 100 miliardi, rapportati ai prezzi in circolazione allora, li valeva eccome. Una parata su tutte a testimoniarlo, nel novembre del 2000, in Bari-Parma: Gionatha Spinesi salta a colpire di testa tra due difensori del Parma, all’altezza dell’area piccola. Buffon non esce (i suoi pochi e sempre ingiusti critici dicono che non sia granché nelle uscite alte), anzi rimane sulla linea di porta, con uno spazio da coprire che è il più grande possibile. Spinesi impatta, piazza all’angolo basso alla sinistra di Buffon, che non si lancia di lato, ma solleva le gambe e le ginocchia per arrivare a toccare terra il più in fretta possibile, e nel video sembra che riesca a “saltare” dei frame video, ossia a eliminare del tempo, per poi ricomparire improvvisamente sdraiato con la mano sinistra che fa un suono sordo frenando il pallone. Poi Spinesi, ancora, recupera la palla e gliela calcia addosso, e lui ancora ha dei meriti perché non è rimasto fermo e sdraiato ma si è alzato di quei pochi centimetri decisivi per realizzare la doppia parata.
Prima di iniziare con la Juventus, però, c’è un capitolo importante: non per Buffon, in un certo senso, perché è un capitolo che Buffon non ha vissuto. Ma nell’altro senso è importante anche e soprattutto per questo, perché Buffon avrebbe dovuto viverlo: è l’Europeo del 2000, che doveva vederlo titolare e che invece ha visto come protagonista un fortissimo Francesco Toldo. Buffon si frattura «il terzo metacarpo della mano sinistra», come recita il referto medico, nell’amichevole Norvegia – Italia del 3 giugno 2000, persa dagli azzurri 0-1. Torna a casa e la maglia numero 1 viene data all’Under-21 Christian Abbiati, poi Peruzzi rifiuta la convocazione, e quello che doveva essere il terzo portiere diventa titolare ed eroe a causa della prestazione contro l’Olanda in semifinale. E il posto di Gianluigi Buffon, dopo il secondo posto dell’Italia (finale persa contro la Francia) non è più così sicuro. Ma finito il Campionato Europeo Zoff viene “esonerato” da Silvio Berlusconi, e in panchina arriva Trapattoni che rimette Buffon tra i pali a partire da Italia-Inghilterra, 15 novembre 2000, giocata a Torino (nota: l’Inghilterra si presentò con una formazione più che sperimentale, Trapattoni non conosceva quasi nessun avversario, e non sapeva che formazione schierare. Albertini gli portò un computer, e studiarono gli avversari sul gioco Football Manager). Ci sono subito polemiche, ma il Trap dice: «Non voglio sentir parlare di sorpasso». Anche due anni dopo, prima e durante i Mondiali di Giappone e Korea del 2002, il clima tra Buffon e Toldo è teso, e il portiere della Fiorentina e dell’Inter dirà poi: «Con tutto il rispetto per le idee e le scelte di Trapattoni, io credo che non sia necessario pensarla tutti allo stesso modo: allora io dico che in quella Nazionale c’erano dei titolari inamovibili e altri giocatori quasi in vacanza. E penso che questo sia stato uno dei limiti dell’Italia». Buffon, però, aveva risposto o anticipato Toldo mesi prima, a gennaio 2002, quando la discussione era già in corso: «Io Toldo lo capisco, è giusto che faccia certi discorsi perché è un grande portiere. Personalmente, però, mi sento all’altezza della situazione e non ho alcun problema nel difendere il mio posto».
Perché Buffon non avrebbe dovuto essere sicuro del posto, sia secondo Toldo che secondo buona parte dell’opinione pubblica o calcistica dell’epoca? Perché la sua esperienza alla Juventus non era iniziata bene, o almeno non benissimo, o almeno non perfettamente come ci si aspettava dall’acquisto più caro della storia della squadra. A settembre 2001, campionato appena iniziato, si fa scappare dalle mani il pallone in uscita alta, cade goffo per terra e lo regala a Marazzina che appoggia in gol. «È l’errore che mi ha fatto dormire meno» dirà lui anni dopo. Oppure, nello stesso mese, non para una punizione non troppo difficile di Batistuta in Juventus-Roma, roba che si perdona e si dimentica a novantanove portieri, ma non al centesimo, o al primo, che è Buffon. Tuttosport, ingiusto, titola: «Disastro Juve!» e sotto: «Papera di Buffon». Anche La Gazzetta dello Sport: «Il nuovo errore di Buffon». E poi, a dicembre, in un Arsenal-Juventus (3-1) di Champions League, non trattiene un tiro centrale di Vieira e regala la palla a Ljungberg. Anche qui, a fine stagione, dirà: «È l’errore che mi dà più fastidio. […] Senza la mia indecisione la Juventus non avrebbe perso». E già da subito parte la sua battaglia in difesa dei portieri: Buffon è uno che non ha mai accettato le critiche, e ha sempre fatto bene a non farlo. Non ha mai accettato la condizione del portiere come capro espiatorio, subordinato, nell’importanza rovesciata delle responsabilità, a tutti gli altri compagni. Nella stessa occasione, dice anche: «A me sono stati subito rinfacciati i 100 miliardi che la società ha speso per acquistarmi. Per fortuna, però, mi sono abituato in fretta. Il calcio viaggia veloce, ma ci vuole un briciolo di tolleranza. Io quest’anno ho commesso tre leggerezze ma pure tanti buoni interventi». E infatti vince subito lo Scudetto, giocando in A 34 partite e subendo 23 gol, una delle migliori stagioni della sua storia bianconera (le migliori sono quelle sotto Antonio Conte).
La stagione dopo le critiche si sciolgono e si dimenticano, e forse la 2002-2003 è la stagione in cui si consolida in Italia e nel mondo l’immagine del Buffon di oggi, che è anche quella del Buffon che passerà alla storia, ovvero quella del portiere più forte del mondo. Eppure in quella stagione c’è un altro portiere, uno caratterialmente agli antipodi dell’italiano, che viene nominato da molti il migliore in attività: si chiama Nelson Dida, gioca nel Milan, e vince la Champions League, a Manchester, proprio in faccia a Buffon. Manchester, ovvero l’Old Trafford, ovvero la notte del 23 maggio 2002, è un luogo e insieme un tempo fondamentale nella storia di Buffon.
Una finale tra due squadre italiane non è una cosa da tutti i giorni. Poi se le due squadre sono Juventus e Milan, le due squadre italiane più vincenti, tutta la storia acquista più fascino, più importanza, più tensione. Il 23 maggio 2003 Buffon fa la sua quinta parata preferita, su Filippo Inzaghi, grande “ex” della partita. La dinamica l’avete già letta, perché è praticamente la stessa di quella sul colpo di testa di Spinesi in Bari-Parma di tre anni prima. La cosa più importante di quella giornata, però, sono le parate non fatte, una in particolare. Nelson Dida, uno che non è mai stato Martín Fierro, ma è stato moltissimo, invece, sia Razumov che Lord Jim, e questo lo rende insieme più umano e più letterario, passa alla storia come l’eroe di quella partita, con tre rigori parati e il suo modo di concentrarsi o di pesare le sue reazioni che è il contrario di quello di Gianluigi Buffon. Buffon para i rigori di Clarence Seedorf e di Kaladze, e in entrambe le occasioni si gira verso la sua curva, dietro la porta, e urla e agita le mani, esaltato, per esultare. Nelson Dida però fa meglio di lui. Il rigore che Buffon doveva parare e non para è quello di Alessandro Nesta, l’ultimo prima di quello decisivo di Shevchenko. Dida aveva già parato i tre rigori. Nesta tira male, una palla né alta né bassa alla sinistra di Buffon, che si era buttato in anticipo nella direzione giusta. Troppo in anticipo, perché la spalla e il costato sono già a contatto con l’erba quando la sfera gli passa sopra, e con il braccio di richiamo non riesce a intercettare la traiettoria. Si rialza in ginocchio, si mette le mani tra i capelli con l’aria di chi ha capito già tutto. «La partita di Manchester rimarrà per sempre una delusione», ha detto in un’intervista a Sky per la serie “I signori del calcio”: «di squadra, per la gente, per me stesso, perché poi alla fine, sai, quell’anno lì sono stato votato miglior giocatore della Champions League […]. Avevo parato anche due rigori, ma non sono bastati». Non lo dice, ma dietro quelle frasi sospese si nasconde il pensiero: se avesse parato il rigore di Alessandro Nesta, se avesse vinto la Champions League, avrebbe vinto anche, forse, il Pallone d’oro.
Gianluigi Buffon rischia di rovinare la statua celebrativa in costruzione di Gianluigi Buffon. Rischia di diventare Lord Jim, o in parte Nelson Dida. Succede tutto prima dell’Europeo del 2004, e la finale di Manchester c’entra. Buffon soffre di depressione. Si confessa in un libro, e in varie interviste. A La Stampa, ad esempio, racconta di quel periodo: «Magari perché ti accorgi che non riesci a trovare la donna giusta, o non riesci a vincere la Coppa dei campioni. Oppure non riesci ad apprezzare quello che hai. Allora ti fermi e vieni sommerso da dubbi e da pensieri: ed è un attimo cadere nella depressione. È stato davvero un periodo brutto. Ricordo che mi dicevo: “Ma che cosa me ne frega di essere Buffon?” Perché poi alla gente, ai tifosi, giustamente, non importa un cavolo di come stai. Vieni visto come il calciatore, l’idolo, per cui nessuno ti dice: “Ehi, come stai?”» Buffon che non vuole più essere Buffon. Poi passa. C’è l’Europeo che va male, ci sono le vittorie con Capello in panchina, c’è Calciopoli, e c’è, finalmente, il Campionato Mondiale del 2006. È qui che tutte le ferite si rimarginano.
Le due notti prima della finale di Berlino, il 9 luglio 2006, Buffon non riesce a dormire. «Un’ora e mezza in due notti», dice. I pensieri sono quelli scontati che ti aspetti, se tre anni prima hai perso una finale di Champions League. A chi tocca adesso? Gianluigi Buffon, però, entra in campo tranquillo. «Tanta è stata la tensione del prepartita che giocai la partita… mi sembrava veramente una partita da bar», dirà sempre ai microfoni di Sky. «La tensione iniziò ad arrivare al novantesimo, ai supplementari e ai rigori». Non è tra le sue parate preferite, ma è una parata fondamentale della sua carriera e del Mondiale dell’Italia quella sul colpo di testa di Zidane, l’ultimo tiro in porta della sua carriera, al minuto centodue. Zidane scambia sulla trequarti con Sagnol, taglia in area di rigore, Sagnol crossa di destro un pallone morbido sulla sua testa, lui è da solo e può fare una torsione perfetta con il busto, il bacino e il collo. Colpisce il pallone forte come se fosse un tiro al volo. Buffon para con un riflesso del braccio destro, e la alza sopra la traversa. L’inquadratura immediatamente successiva mostra Zidane, rivolto verso la porta italiana, con il collo in avanti rosso e teso e la bocca spalancata, sembra un animale, un predatore, sta urlando ma non so se verso Buffon o verso qualcos’altro, qualcosa che può essere la consapevolezza della fine della sua carriera, su cui ha messo una mano impossibile da dimenticare il portiere italiano. Sei minuti più tardi, Zidane si farà cacciare per l’ultima volta da un campo da calcio a causa della testata a Marco Materazzi. Buffon si premia facendo costruire un mosaico raffigurante la Coppa sul fondo della sua piscina.
Finisce il Mondiale e Gianluigi Buffon torna alla Juventus, in Serie B. La dirigenza è cambiata quasi completamente, il Milan lo cerca e lo cerca anche l’Arsenal, e Alessio Secco, il nuovo Direttore Sportivo, gli parla per settimane delle offerte. Dice che quella del Milan sembra la migliore. Buffon abbozza, gli dice ok, bene, finché un giorno chiede: «Ma me ne devo andare per forza?» Secco risponde no, non devi andare via per forza, ma pensavamo che non volessi rimanere. Buffon qui dice che lui ha appena vinto un Mondiale, un campionato in più non gli interessa, lui rimarrebbe volentieri. «È un fatto di coscienza. Aver lasciato la Juventus in un momento così non mi avrebbe fatto vivere bene. E alla fine io per giocare bene, per vivere bene, per stare bene con gli altri, vivere appieno la mia vita con tranquillità e serenità… devo avere la coscienza a posto. E quello era l’unico modo per continuare a giocare in maniera tranquilla e spensierata». A poche giornate dall’inizio del campionato di Serie B lui è entusiasta. Dice che «è un’esperienza nuova, e a livello umano è tutta un’altra cosa» e che «è stata una bella sorpresa, dopo tanti successi sportivi è arrivata l’ora di dare maggior spazio al lato umano, e in serie B per fortuna è diverso». Gioca 37 partite e subisce 21 gol, la sua miglior media fino a quel giorno.
Di nuovo in Serie A, con una rosa non all’altezza degli anni precedenti e ancora di più una dirigenza impossibile da confrontare con chi aveva creato una squadra capace di vincere quasi tutto, la Juventus batte subito (5-1) in casa il Livorno. Alla prima trasferta, a Cagliari, invece soffre, vincendo 2-3 con un gol di Chiellini negli ultimi minuti. Buffon, sull’uno a uno, fa un intervento “dei suoi” (ovvero: tra i pali e addirittura quasi sulla linea, d’istinto, riflesso, coordinazione e velocità, poco ponderati o ponderati per niente, da distanza ravvicinata) su Bianco, poi a fine partita va sotto la curva dei suoi tifosi, di nuovo dopo un anno su un campo di Serie A, e fa con le mani il gesto inequivocabile, accompagnato dal labiale: «Gli facciamo un culo così», dice Gianluigi Buffon, ormai definitivamente lo spavaldo, coraggioso, indomito, e si riferisce, credo, a tutto il mondo.
Da qui al 2013, o al 2014, o al 2080 cambia poco. Ci sono sì moltissime parate straordinarie, con la Juventus e con la Nazionale (due scelte: doppia parata contro il Bologna, di mano e di piede ma comunque sempre d’istinto, e la deviazione in calcio d’angolo di un tiro a girare da fuori area di Benzema, Euro 2008, difficile perché Gigi va “in volo” con tutte e due le braccia; è la sua seconda parata preferita) Coppe e Campionati vinti e alzati, anche con la fascia di capitano. Gianluigi Buffon, però, si è già compiuto. È un monumento che ancora gioca, ma è già un monumento. È deciso da tutti, il portiere più forte del mondo e forse di sempre. È passato ancora attraverso lo scandalo scommesse del 2011, quando disse frasi forti e male interpretate, e le difese a testa alta. È passato attraverso critiche per un rendimento che può definirsi calante una volta ogni due anni, e ha respinto tutto con orgoglio al mittente. Hanno detto che non sapeva parare rigori, e lui ha ricominciato a parare rigori, durante la Confederation Cup del 2013 contro l’Uruguay in cui ne ha presi tre (per non parlare del doppio intervento di piede su Forlán). Quando inquadrano i giocatori schierati per l’inno nazionale, durante le partite dell’Italia, lui è sempre quello con il mento in su e gli occhi chiusi che canta con tutti i polmoni e con la voce stonata più di tutti «siam pronti alla morte», come l’eroe di un poema epico che è riuscito a diventare.