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 2013  dicembre 07 Sabato calendario

CERCAVO LA COADA: HO TROVATO NEL PIATTO UN PICCIONE PERFETTO

Camillo Langone Non so chi mi abbia mes­so la pulce nell’orec­chio. Qualcuno mi avrà detto che, dovendo anda­re nella Marca per presentare il mio ultimo libro, dovevo as­solutamente provare la mitica sopa coada.Sopa coada?L’ave­vo sentita nominare, certo, ma per me era soltanto un suono, un po’ come il«Pape Satàn,pa­pe Satàn aleppe» della Divina Commedia. Per afferrare il si­gnificato delle due stravenete paroline, io che sono venuto via del Veneto a cinque anni e che del dialetto dei tempi dell’ asilo non ricordo nulla, ho con­sultato ricettari vecchi e nuovi, libri ingialliti e internet, e ades­so so che «sopa» vuol dire zup­pa mentre «coada» significa co­vata, aggettivo strano eppure indirizzante: fa venire in men­te una chioccia, un nido, dei piccoli uccelli, e guarda caso l’ingrediente base è il piccio­ne. Ma attenzione, potrebbe essere una falsa pista, una fal­sa etimologia, perché dietro questo piatto che è una bandie­ra di Treviso ci sono mille ipote­si: sulla giusta accezione dell’ aggettivo, sul preciso luogo di origine, sull’esatta data di na­scita... Gli storici locali godono co­me matti nel rieccitare queste antiche diatribe, io invece al­l’erudizione preferisco di gran lunga la degustazione. E se la mancanza di documenti inop­pugnabili mi impedisce di sa­pere con certezza se la zuppa in questione è nata nel capo­luogo o a Motta di Livenza, a fi­ne Ottocento o nel Rinasci­mento, in una corte raffinata o in un’osteria plebea, pazien­za. Anzi, meglio così, siccome il mistero alimenta il mito. Non so chi mi abbia messo la pulce nell’orecchio ma so chi mi ha messo il piccione nel piatto: Gigetto, al secolo Luigi Bortolini, storico ristoratore di Miane che è un paese fra Cone­gliano e Valdobbiadene, nel cuore di quella che per tutti è la terra del Prosecco mentre per me, snob inguaribile, è il para­diso del Verdiso (il Verdiso di Gregoletto, non ci dovrebbe es­sere bisogno di specificare).
Il ristorante «Da Gigetto» sembra uscito dalle pagine di «Veneto felice» del grande Co­misso: questo non è Nord-est, definizione senz’anima e gra­zie a Dio declinante, ma pro­prio Veneto- Veneto, e qui den­tro
non si re­spira la crisi gelida che là fuori chiude i capannoni ma la calda ospitalità che apre i cuori. Tante stanze e stanzette ral­legrate dal fuoco dei ca­mini, arreda­te in modo di­verso: la no­stra sala, co­nosciuta co­me la sala dei rami, una sorta di sancta sanctorum da prenota­re espressamente, è piena di stampe alle pareti e di pentole sul soffitto, così scenografiche da sembrare un’installazione di arte contemporanea (come faranno a tenerle così lustre?). E ovunque la dolcezza, la bian­chezza e la bellezza delle came­riere venete. Arriva la carta, sarebbe bello provare tutto ma si teme che la sopressa di casa con polenta più che un antipasto sia un pa­sto completo e si comincia col savarin di zucca e le lu­mache alla Gi­getto, simpati­cissime an­che per gli at­trezzi che le corredano, una pinza per bloccare la conchiglia e un forchetti­no sottile per estrarre il gu­stoso mollu­sco. Ma io sono qui per la sopa coada ed eccola che arriva. Si presenta come un morbido tra­mezzino farcito di piccione e affogato in soavissimo brodo, ed è buona indicibilmente. Purtroppo nessuno dei miei maestri di civiltà veneta ne ha scritto, né Comisso né Cibotto né Zanzotto (che era di un pae­se vicino), o forse lo hanno fat­to ma non sono riuscito a tro­varne traccia. Essendo a corto di citazioni letterarie mi soc­corre un’amica indigena che parla di «piatto che scalda e av­volge il palato con il pane soffi­ce e la carne tenera del volati­le ». Chiaramente è una porta­ta invernale anche se Gigetto mi dice di prepararla tutto l’an­no perché la richiesta non vie­ne mai meno, c’è gente che vie­ne da lontano apposta, anche in estate. Pro­vo a farmi di­re la ricetta ma non ci ca­pisco nulla da tanto è lunga e complicata, e questo spie­ga perché nel­le case sia qua­si estinta e nei ristoranti sia piuttosto ra­ra. Pare che Giancarlo Gentilini la or­dini abitual­mente ai Do Mori di Trevi­so mentre Lu­ca Zaia viene proprio qui a gustarsela. Al presidente del Veneto chiedo lumi via sms e po­chi secondi dopo rispon­de co­n abbon­danza di pun­ti esclamati­vi: «Sì!!! Vale il viaggio!!! Un vero presidio identita­ rio!!!». A con­fronto con questa assolu­ta meraviglia è ovvio che i tortelli d’anatra risultino piut­tosto normali. Riportano in quota la faraona con salsa pe­verada e il muset croccante ser­vito con puré di pastinaca e cren. Il muset, in italiano mu­setto, è un cotechino più ma­gro, più fine e più digeribile, specie se accompagnato dal­l’amatissimo Verdiso frizzan­te che scelgo da una carta mo­numentale piena di rarità eno­logiche da tutto il mondo.
L’Incontentabile che abita dentro di me è riuscito a coglie­re alcune imperfezioni perfino da Gigetto: la musica anglofo­na (comunque non troppo al­ta); qualche piatto giappone­soide, di forma quadrangolare e quindi, per via degli spigoli, respingente; qualche dolce spagnoleggiante come il tira­misù in sfera con peperoncino e olio d’oliva che fa subito pen­sare a Ferran Adrià, un cuoco che andava di moda negli anni Novanta. Ma la sopa coada vin­ce su tutto e prego San Marco di avere occasione di gustarla ancora in questo ristorante del Veneto felice e sempiterno.