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 2013  dicembre 07 Sabato calendario

COLDIRETTI PROTESTA E I MINISTRI SI METTONO IN CODA

Che cosa sarebbe successo se il ministro del Lavoro, Enrico Giovannini, si fosse presentato davanti a una fabbrica della Fiat duran­te i giorni caldi del contratto, indossan­do una bella felpa rossa della Fiom (idea made in Lapo)? O pensate al mini­stro della Sanità, Beatrice Lorenzin, par­tecipare a un sit in con un cappellino della Cgil? Sarebbe successo, e giusta­mente, un finimondo. Eppure Nunzia De Girolamo, il nostro ministro del­l’Agricoltura, si è presentata al Brenne­ro esibendo il giubbotto della Coldiretti. Nel giorno in cui tutti sono Mandela, converrebbe spiegare al mi­nistro dell’Agricoltura che non tutti so­no Coldiretti. L’organizzazione dei coltivatori diret­ti è solo una delle parti in una vicenda che è tutt’altro che chiara. Ieri Dario Di Vico sul Corriere della Sera ha scritto: «L’iniziativa di portare in segno di prote­st­a alcuni maiali davanti a piazza Mon­tecitorio, come ha fatto ieri Coldiretti, non può essere assolutamente condivi­sa. Se quella immagine dovesse essere ripresa da qualche giornale o televisio­ne in giro ­per il mondo sappiamo chi do­vremmo ringraziare dell’ulteriore gra­tuito discredito gettato sulle istituzioni del Paese». Ci sono due piani in questa vicenda.Uno di principio e l’altro di op­portunità. Quello di principio riguarda la sacrosanta battaglia sul «made in». E qui si scontrano posizioni contrappo­ste: c’è chi vorrebbe il «made in» al 100 per cento sull’intera filiera.E chi più rea­listicamente ritiene che non avendo materie prime a sufficienza, la trasfo­r­mazione e gran parte della produzione fatta in Italia siano sufficienti. Potrem­mo parlarne per ore. Ogni comparto dell’agroalimentare inoltre fa storia a sé. I vini francesi venivano fatti con i ta­gli pugliesi o l’olio sounding toscano con quello comprato ad Andria. Insom­ma non diciamo che la questione sia di poco conto e che non ci siano ragioni re­ciproche, ma affermiamo che con le pa­gli­acciate in piazza o atteggiamenti tale­bani si risolve poco.
A proposito, la Nutella con quale ma­terie prime si fa e la pasta Barilla quale grano usa? Siamo davvero certi di voler loro togliere l’inconfondibile marchio tricolore per il fatto che usino materie prime importate? E ancora, è davvero italiano, per i nostri talebani, un salu­me fatto da un suino comprato all’este­ro, cresciuto in Italia e alimentato (co­me avviene per la stragrande maggio­ranza dei casi) con mangimi Ogm di provenienza straniera? Non facciamo le verginelle, la questione alimentare e del «made in» è molto complicata, ma è molto semplice capire che dietro di es­sa si muove un grande serbatoio di voti che si chiama Coldiretti. Una organizza­zione sindacale ben organizzata, con una straordinaria capacità comunicati­va e m­olto abile a difendere i suoi legitti­mi interessi. In pochi si sono resi conto che durante il passaggio della finanzia­ria al Senato è stato provato un blitz bi­partisan per rifinanziare la Federcon­sorzi per la bellezza di 400 milioni di eu­ro. Il subemendamento è partito dal gi­ro dalemiano e poi è trasmigrato in quello dell’attuale ministro dell’Agri­coltura. Il rapporto tra Coldiretti e una parte variegata del centrodestra non de­ve stupire. La De Girolamo ha ereditato una situazione già presente da tempo in quel ministero e inaugurata dalla ge­stione Alemanno.
Ma ritorniamo alla Federconsorzi. I fenomeni si erano inventati una leggi­na ch­e avrebbe permesso di rivitalizza­re finanziariamente quei baracconi lo­cali che si chiamano consorzi agrari e che per la gran parte sono falliti o sotto commissariamento (in alcuni casi tren­tennale). Ma che hanno una particolari­tà: sono praticamente tutti gestiti da uo­mini della Coldiretti. Ovviamente in condivisione con le minoranze rappre­se­ntate dalle altre sigle del mondo agri­colo. Il colpo è fallito grazie a un’altra in­tesa bipartisan (Pd non dalemiano e Forza Italia) che non riusciva a capire come si potessero dare quattrini (o tito­li di Stato, si era alla fine ipotizzato) a un carrozzone che semmai andrebbe ven­duto, e nel contempo tassare capanno­ni e campi ( anche se solo per gli incolti). Ecco, la morale di questa zuppa è molto semplice. È chiaro ed evidente a tutti che indossare una casacca, oltre a quel­la lucida del partito a cui si appartiene, non sia elegante dal punto di vista del galateo istituzionale. Ma non ci scanda­lizziamo e conviene non fare troppo i moralisti. Quello che invece scopria­mo è come Coldiretti oggi ( e a buona ra­gione vista la sua forza sul territorio) sia uno degli interlocutori politici più inte­ressanti, sul cui carro tanti cercano di saltare. O sono già saltati.