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 2013  dicembre 07 Sabato calendario

L’OSSESSIONE DI ESSERE PERFETTI

Che cosa accomuna Jan Vermeer, un mago di colori e luci, Gustav Flaubert, cultore degli aggettivi mentre scriveva Madame Bovary e Arturo Toscanini, le cui urlate prove d’orchestra erano uno show a parte? L’attitudine, al di là dell’essere diversamente grandi, al perfezionismo. Attenzione però, soprattutto in mancanza di quel talento, a non esagerare. Mica sempre funziona.
Senz’altro non nel privato, perché chi fa parte di quel «club» è portato a intervenire fallosamente su qualsiasi argomento alla sua portata: ricette, film, vacanze, percorrenze autostradali. Con il perfezionista, granitico macigno sulla leggerezza conviviale, nulla resta impunito. Chiaro che il suo nome venga sfrattato da molte agende, se mai sia entrato.
Ma nemmeno, a quanto pare, funziona sulla riva professionale. Il perfezionismo negli ambienti di lavoro semina una specie di spiacevole ansia da prestazione in senso lato: sì, pure i risultati economici fanno cilecca.
L’ultimo ammonimento viene dal Financial Times , che con un articolo della psicoterapeuta Naomi Shragai, assicura quanto sia meglio imbrigliare in buone redini la nostra eventuale propensione alla perfezione. «Non è un caso — conferma Shragai — che anche verso quei genitori che si sentono inadeguati s’insista sulla necessità d’accettare limiti e possibilità di sbagliare. È inutile cercare d’essere perfetti, basta essere abbastanza bravi nell’aiutare i figli ad affrontare la vita».
Ma quali sono, per esempio, i motivi per cui un capo perfezionista riesce a ottenere meno risultati di uno con qualche parvenza d’umanità?
Primo: pretendono molto da sé, e sono iper-autocritici ma con gli altri vanno giù anche più pesante e questo non è zucchero per il morale della truppa.
Secondo: non amano delegare ma se temono ci sia il rischio-errore s’intromettono e non sono bei momenti.
Terzo: l’ossessione del dettaglio impedisce loro d’avere una visione più alta di tutto il lavoro.
Quarto: la paura che le cose non meritino il dieci e lode gli fa procrastinare le scadenze, aumentando l’altrui frustrazione.
Quinto: il fatto di concentrarsi sui risultati in modo integralista, tralasciando qualche tonico anti-tensione, li rende francamente odiosi.
Sono ufficiali per cui attaccheremmo all’arma bianca contro l’artiglieria nemica? Difficile.
In ogni caso, come si diceva, il perfezionismo non è necessariamente antagonista del talento. Quando vediamo negli studios dei Beatles in Abbey Road, Paul McCartney spiegare per la sesta volta a George Harrison come deve fare l’assolo di Hey Jude, si capisce che lui è lì lì per mettergli le mani nel collo, ma a un genio come Paul questo non si fa.
Vogliamo parlare di Robert De Niro e delle sue trasformazioni fisiche tipo sosia del pugile Jake LaMotta in Toro scatenato? Anche Steve Jobs, caratterino di carta vetrata ad alto ingegno, faceva parte della congrega, visto che investiva montagne di dollari perché i suoi oggetti fossero (accademicamente) belli perfino all’interno.
Il perfezionismo non è legato soltanto alle occasioni maiuscole: lo chef-star Carlo Cracco lo applica anche a una cosa casalinga come le verdure all’olio. Ma la cipolla di Tropea deve essere tagliata in quattro parti a X e le carote di traverso, se no s’incupisce senza rimedio.
Le motivazioni possono essere le più disparate. Margherita Buy, ultrarigorosa nella preparazione d’un copione, fa riferimento all’ansia e al senso del dovere. Per Giorgio Armani, che va a controllare (senza farsi vedere) le vetrine dei suoi nuovi negozi, è una condizione irrinunciabile per il successo. E che dire del grande pianista Glenn Gould che considerava il pianoforte un’appendice del suo corpo?
Ad ascoltare però due star hollywoodiane come Gwyneth Paltrow ed Emma Watson, la «colpa» sarebbe invece tutta di mamma e papà: perfezioniste si nasce, non si diventa. Caso mai ci si può (parzialmente) pentire.