Massimo Gramellini, La Stampa 7/12/2013, 7 dicembre 2013
IL NIPOTE DI NELSON
Alla notizia della morte di Nelson Mandela, milioni di persone hanno inviato un pensiero riconoscente al leader della lotta al razzismo. Qualcuno già da tempo aveva disincarnato l’uomo per trasformarlo in un santino buono per tutte le cause, un’icona del politicamente corretto. Ma nell’insieme, per una volta, ci si è ritrovati in tanti a coltivare emozioni positive e unificanti intorno a una bella figura e a una bella idea. Per mezzo minuto nessuno ha pensato esclusivamente ai fatti propri. Nessuno tranne uno. Lui.
Nel dettare alle agenzie di stampa il coccodrillo sull’esimio scomparso, ha mescolato narcisismo e capacità mimetica per calarsi con voluttà nei panni di Silvion Mandeloni. Riga dopo riga, dietro l’uomo che ha sconfitto l’apartheid ne affiorava un altro di nostra conoscenza, «un eroe della libertà capace di non arrendersi mai, anche quando le forze del male sembravano imbattibili». E anziché i razzisti sudafricani, venivano alla mente i magistrati norditaliani e i presidenti napolitani. Il finale era all’insegna dell’immedesimazione totale: «Mi auguro che molti, tra coloro che in queste ore ne tessono le lodi, imparino a praticare la riconciliazione nella verità e nel rispetto reciproco». Praticamente ha brandito il ritratto dello zio d’oltremare, imprigionato per reati di opinione, pur di chiedere alla sinistra nostrana la grazia per un evasore fiscale. Mandela ci mancherà. Ma, a suo modo, anche il nipote.