Roberto Giardina, ItaliaOggi 6/12/2013, 6 dicembre 2013
L’ITALIA SI CASTRA A FRANCOFORTE
La cultura non dà da mangiare. Molti, e non solo politici, ne sono convinti. I tedeschi invece pensano che la Kultur costi poco, o sempre meno di altri investimenti, e sia un buon affare. Il governo Letta, sempre alla ricerca di risparmi che non «facciano male», ha deciso la chiusura di tredici istituti di cultura su 90. Fine per Copenhagen, e per Strasburgo, e il Lussemburgo. Evidentemente i danesi contano poco agli occhi di Roma, come le sedi in due centri vitali per la Ue. E chiude anche Francoforte, capitale finanziaria del continente, sede della Banca centrale europea, e della Buchmesse, la fiera del libro più importante al mondo. Ma rimane aperta Wolfsburg, che ospita la Volkswagen, e migliaia di nostri emigranti, in attività o in pensione, e dove l’Istituto ha il ruolo quasi di un dopolavoro.
Di sicuro sette istituti in Germania, quanti sono i Goethe Institut in Italia, sono troppi se non si hanno i fondi per finanziarne le attività. Ma le scelte di Roma non sembrano le più logiche. A Berlino ho conosciuto direttori molto bravi, altri sufficienti, un paio che si facevano gli affari loro. Non sempre quelli scelti per chiara fama sono i migliori: Claudio Magris e Umberto Eco hanno saggiamente rifiutato la nomina in Germania. Essere uno scrittore di talento, ammirato dai tedeschi non basta. Servono dei manager a pieno tempo. Ottimo è stato Angelo Bolaffi, scelto per chiara fama, e il suo successore Aldo Venturelli. Bravi a tirare avanti con molte idee e pochi soldi.
A volte ci comportiamo come chi per risparmiare non cambia l’olio alla Ferrari, e finisce per fondere. L’Alitalia ha pensato bene di chiudere la sede di Berlino, e cancellare i voli per la capitale, che ora conosce uno straordinario boom turistico. Uno stupendo autogol. Si può risparmiare ma per investire altrove, come fanno i tedeschi. Hanno ridotto al minimo il personale a Trieste, dove la loro cultura non ha bisogno di sostegni, per aprire sedi in paesi strategici come il Kazakhstan, ricco di gas e materie prime. Tra qualche anno l’ingegnere kazaco che parla tedesco magari finirà per comprare macchine utensili Made in Germany. La cultura rende, ma non si può calcolare come, quanto e quando.
Berlino, metropoli povera, sta conoscendo una sorta di rinascimento economico anche grazie alla cultura: si viene qui per i musei, per i concerti alla filarmonica, per le tre Opere. I biglietti non bastano a coprire i costi, ma gli spettatori spendono altrove, riempiono alberghi e ristoranti. I tedeschi amano la nostra cultura, i corsi di italiano sono esauriti, e noi gli chiudiamo le porte in faccia.
Si può risparmiare ad esempio assumendo personale locale, preparato ma che costa meno, perché non occorre pagare affitti e scuole per i bambini. Forse sarebbe ora di copiare i tedeschi.
I Goethe sono gestiti da una fondazione indipendente dal ministero degli esteri. Non sempre gli ambasciatori e i ministri sono i più adatti a gestire e a controllare la cultura. E sarebbe un errore per risparmiare fondere gli Istituti con le Dante Alighieri. Sono società diverse, e che lavorano con metodi differenti. La «Dante» di Berlino risale al 1904, ha attraversato periodi difficili, è sopravvissuta al nazismo, alla guerra, al «muro», e i suoi soci sono in gran parte tedeschi. Va avanti con scarsi mezzi, eppure ha il suo pubblico, che non è identico a quello dell’Istituto. Si collabora già, senza gelosie.
Il prossimo weekend sarò a Stettino, dove funziona una facoltà di italianistica: i laureati trovano subito un’occupazione grazie alla nostra lingua, e le nostre società italiane preferiscono aprire sedi nella città un tempo tedesco perché trovano personale che parla italiano. Quanto rendono a noi e a Stettino questi ragazzi che si laureano con tesi su Tomasi di Lampedusa, sulle feste tradizionali della Calabria, o sulle maschere della Commedia dell’Arte? Difficile spiegarlo a politici per cui la Kultur è solo un spreco.