Danilo Taino, Sette 6/12/2013, 6 dicembre 2013
IL “PRINCIPINO” GANDHI E IL SIGNORE DELLE PIAZZE. L’INDIA VERSO LA SFIDA FINALE CHE DECIDERÀ ANCHE IL FUTURO DELL’ASIA
Narendra Modi si è congratulato con le zanzare di Sagar, città dello Stato indiano del Madhya Pradesh. È un oratore pirotecnico, un politico tra i più controversi dell’India ed è già in campagna elettorale: è l’uomo emergente del maggiore partito di opposizione a New Delhi (il Bjp), candidato ufficiale alla carica di primo ministro alle elezioni nazionali della prossima primavera. Il merito delle zanzare – ha spiegato qualche settimana fa durante uno dei suoi affollatissimi comizi – è di avere pinzato Rahul Gandhi, l’erede della dinastia che domina la politica indiana quasi ininterrottamente dall’indipendenza del 1947: Rahul sarà con ogni probabilità il suo avversario, candidato del partito del Congresso oggi al potere ma in affanno nei sondaggi. «Voglio congratularmi con le zanzare che hanno osato pungere Shazadeh (il principino, ndr) perché nessuno nella sua famiglia è mai stato toccato negli ultimi cent’anni», ha detto.
Una maniera ingenua di fare campagna elettorale? No: la politica indiana è sofisticatissima. Complicata, difficile, dura, violenta; e probabilmente nei prossimi mesi sarà più violenta del solito. Ma proprio per questo fatta da persone di straordinaria abilità. Che devono parlare semplice per farsi capire da masse spesso analfabete. In questo, Modi è un campione. Ha 63 anni ma è l’uomo nuovo della politica indiana, un nazionalista indù con un passato buio ma che oggi è la bandiera di coloro che vogliono portare l’ennesimo assalto al baluardo del potere incarnato dal Congresso e dalla famiglia Nehru-Gandhi. Altre volte l’attacco ha avuto successo: ma per brevi parentesi di tempo. Questa volta, può essere diverso: un po’ l’abilità e il carisma di Modi, ancora di più i cambiamenti nella società e nella politica indiana potrebbero portare a una svolta storica.
Le elezioni del prossimo maggio si presentano come le più importanti da almeno un paio di decenni: decideranno se l’India democratica continuerà a crescere e a essere un’alternativa al modello autoritario della Cina; se riuscirà a ridurre la corruzione e a riformare burocrazia e sistema politico sempre più frammentato; se saprà tenere insieme una società in cui i poveri diventano via via più coscienti di esserlo. E se Rahul Gandhi, il principino, è l’uomo giusto per vestire il mantello della dinastia che finora è stata un corpo unico con la storia moderna del subcontinente: è il test sul quale si misurerà il successo o meno di sua madre, Sonia, ad assicurare un futuro politico alla famiglia dopo le glorie e le tragedie dei decenni passati. Per i Gandhi, Narendra Modi è il grande pericolo del momento, ma per altri indiani è un’alternativa all’immobilismo che sta mettendo in crisi il Paese.
Persona non gradita in Usa. Modi è da 12 anni il primo ministro del Gujarat. Nel suo ruolo, è accreditato del successo economico dello Stato, il più dinamico della federazione indiana. Su quest’onda si è imposto al suo partito come l’uomo giusto per battere il Congresso. La gerarchia del Bharatiya Janata Party (Bjp), anziana e conservatrice, non lo avrebbe voluto: è un outsider estraneo ai meccanismi del Centro, cioè della capitale Delhi. Ciò nonostante, ha dovuto accettarlo per la popolarità che si porta dietro: dal Gujarat a qualsiasi altro Stato, folle enormi lo seguono, persino pagano qualche rupia per partecipare ai suoi comizi. Sarebbe l’uomo giusto, visto così: liberale in economia, attento ai bisogni dei poveri, moderno. Quel che ci vuole per dare il cambio a un governo guidato dal Congresso, tornato al potere nel 2004 ma che dalle elezioni del 2009 non ha praticamente fatto nulla, un’ingessatura politica che ha portato l’India a vedere crollare il tasso di crescita dall’otto al quattro per cento. Il problema è che niente è lineare sulle coste dell’Oceano Indiano: accanto a un brillante lato palese, Modi possiede un oscuro lato profondo.
Il grande peccato che si porta dietro risale al 2002. Era già primo ministro del Gujarat quando un treno fu dato alle fiamme non lontano dalla capitale dello Stato, Ahmedabad: 58 morti. Si sparse la voce che responsabile fosse un gruppo di musulmani e si scatenò la vendetta di centinaia di indù: uccisero tra i 900 e i duemila musulmani, ne ferirono altre migliaia, bruciarono le loro case, costrinsero alla fuga intere comunità di islamici. Modi fu accusato di non avere fatto nulla per fermare la vendetta, anzi di averla favorita con i suoi atteggiamenti. Un’indagine lo assolse, ma da allora si porta dietro la reputazione di nazionalista senza scrupoli, legato ai movimenti indù di destra che predicano l’odio tra etnie. Al punto che, ancora oggi, il possibile futuro primo ministro della maggiore democrazia del pianeta è persona non gradita negli Stati Uniti. In un Paese in cui gli scontri tra comunità sono stati in passato raccapriccianti, la candidatura di Modi fa temere una ripresa su grande scala delle violenze. Negli ultimi tempi ha attenuato i toni per guadagnare un appeal da primo ministro e per spingere sulla strada del declino i Gandhi e il Congresso, laico, secolarista ma spesso conservatore in economia: ma a molti fa paura.
Difficile dire se Rahul riuscirà a contrastare l’offensiva di Modi. Finora, non ha dimostrato le capacità di leadership del bisnonno Jawaharlal Nehru (il primo premier dell’India indipendente), della nonna Indira Gandhi, del padre Rajiv e della madre Sonia. A 43 anni, da vicepresidente del Congresso è tempo che dimostri di sapere portare il partito alla vittoria, cosa che finora non è riuscito a fare in una serie di elezioni locali. Promette un governo di giovani, e questo potrebbe essere un elemento di forza: a maggio voteranno per la prima volta 120 milioni di ragazze e ragazzi. Ma inevitabilmente incarna il simbolo del nepotismo. E non ha grande carisma, tanto che probabilmente sarà affiancato in campagna elettorale dalla sorella Priyanka, brillante oratrice, molto amata nel Paese. Da come sono andate le elezioni locali del 5 dicembre, i cui risultati ufficiali si sapranno l’8, dipenderanno le energie e le speranze che il Congresso metterà nella campagna elettorale.
Di certo, quelle dell’anno prossimo saranno elezioni di enorme rilievo. Dovendo scegliere se affidarsi di nuovo ai Gandhi o cambiare pagina, l’India deciderà molto altro, qualcosa che sarà importantissimo anche per il resto del mondo. A cominciare da quale strada prendere in economia. Di fronte, un bivio esemplificato da uno scontro intellettuale tra i due maggiori economisti del Paese, Amartya Sen e Jagdish Bhagwati. Il primo, professore a Harvard, sostiene che l’India deve mettere l’accento sul sostegno alle centinaia di milioni di poveri, cercare di farli uscire dalla condizione di miseria e di analfabetismo, anche attraverso sussidi, protezioni e politiche sociali mirate: più vicino alle posizioni dei Gandhi. Il secondo, professore alla Columbia, dice che il solo modo per abbattere la povertà è fare tornare a crescere il Paese a ritmi consistenti, dunque aprire l’economia, rimuovere le protezioni, favorire gli investimenti: più vicino all’impostazione di Modi.
Tutti sanno che l’India avrà successo e diventerà la superpotenza che sogna di essere solo se batterà la povertà che affligge centinaia di milioni dei suoi abitanti. Il problema è come arrivarci. La prima strada, per esempio, è destinata a rallentare l’urbanizzazione, la seconda ad accelerarla. Sapendo che il 70% degli indiani vive nelle campagne, si può pensare abbiano ragione Sen e Rahul. Ma sapendo che il 70% del Prodotto lordo viene creato nelle città, si può immaginare che sia giusta la prospettiva di Bhagwati e di Modi. Di sicuro, l’accesso all’educazione, la possibilità di trovare un lavoro, la rottura delle ancora drammatiche divisioni di casta sono molto più possibili nelle metropoli e persino nei loro slum che non nei villaggi, dove ancora trionfano le peggiori tradizioni, una profonda ignoranza e una violenza diffusa. La recente e imponente mobilitazione contro la piaga della violenza sulle donne è nata nelle metropoli ed è il segno dell’emergere di una nuova società civile con una coscienza che si forma grazie alla crescita di un ceto medio urbano generato da due decenni di forte sviluppo del Paese. Le elezioni del 2014 diranno se questo processo di crescita andrà avanti o se il “fenomeno India” sia destinato a finire nella sabbia.
In gioco c’è moltissimo, insomma. La possibilità stessa di dimostrare che l’India democratica ce la può fare a battere la povertà tanto quanto l’autoritaria Cina. Da questo punto di vista, l’India è il più importante esperimento democratico dai tempi delle rivoluzioni americana e francese: può dimostrare (ma anche non riuscirci) che un Paese di oltre un miliardo di persone e in via di sviluppo può crescere, diventare più ricco e rimanere democratico. È questa l’enorme sfida che fa da sfondo alla battaglia tra Narendra Modi e la famiglia Gandhi, da seguire con attenzione. A seconda di chi pinzerà a Sagar, la zanzara potrà provocare un terremoto a New Delhi, o a Pechino.
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