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 2013  dicembre 06 Venerdì calendario

LA NUOVA GUERRA DI HOLLANDE


Bokassa, imperatore del Centrafrica, faceva iniziare la visita a questa terra ricca di violatori di diritti umani più che di iene, non dal palazzo dell’assemblea o da una università.

Bokassa portava gli ospiti nell’istituzione principale: la prigione.
A Ngaragla. L’avevano costruita i francesi, ma era piccola con solo una camera della morte. L’imperatore amava i francesi, aveva combattuto per loro, gli avevano concesso il potere; ma non avevano capito niente degli africani. Questo lo diceva solo se non c’era qualche consigliere di Parigi a sentirlo e non veniva in visita il suo amico Giscard a cacciare elefanti. Quando si elimina un avversario, un ribelle potenziale, qui, bisogna annientare anche tutto il suo clan, i neri sono vendicativi e hanno il senso della famiglia, non perdonano. Per questo il capo della prigione è un ruolo chiave nel Paese, più del primo ministro, più del capo delle finanze, lo può scegliere solo il presidente.
Torturavano a Ngaragla, i prigionieri chiedevano in nome di Dio o di Allah di essere uccisi subito. La regola era che dovessero, prima di morire, bere la loro urina e mangiare i loro escrementi; Bokassa uccideva i suoi nemici e i suoi vecchi amici, gli ex cospiratori e i possibili cospiratori. Quando i prigionieri erano troppi faceva come gli allevatori di polli del suo villaggio; uccidere, sopprimere, ridurre. Bokassa, un amico dei francesi: non c’è più, morto esule in Francia, il suo castello venduto, le statue in fogge napoleoniche sparite, la carrozza e l’ermellino dell’incoronazione mangiate dai tarli. Ma il Centrafrica continua a essere un luogo, un Paese morto, già popolato di fantasmi, dove decine di migliaia di esseri umani sono fuggiti e fuggono ogni giorno come da una Gomorra senza mai voltarsi indietro.
Bande di assassini armati di kalashnikov e machete, cristiani e musulmani, attraversano città e villaggi. Il silenzio assoluto. Morte, morte su tutti i muri, mosche, persino le finestre e le porte sono state distrutte o portate via. Il puzzo, mescolanza di morte di infezione di urina di escrementi, è insopportabile. Campi solitari ovunque che racchiudono carcasse di villaggi. E cadaveri lasciati al sole ad asciugarsi a pancia all’aria sotto i grandi occhi neri della case devastate. Gli avvoltoi e i cani vengono loro a pulire gli occhi.
Ospedali, dispensari, uffici: tutto è stato saccheggiato, nelle scuole sulle lavagne le ultime date si fermano al marzo scorso: quando tutto è cominciato. Le bande musulmane dei Séléka, ex ribelli del Nord che hanno preso il potere la cui coalizione si è sciolta solo sulla carta ammazzano tutti, uomini donne bambini. I loro avversari, i gruppi di autodifesa cristiani, le milizie «anti balakas», anti machete, ammazzano in genere solo i maschi, anche quelli che hanno cinque o sei anni. Silenzio! si uccide. Ieri ancora morti e scontri a Bangui, 105 cadaveri sono stati scoperti in una moschea. Dopo mesi di massacri il segretario dell’Onu ha riconosciuto che c’è una «situazione di pre-genocidio». Chissà cosa è un pre-genocidio. È in Centrafrica che per la prima volta nella mia vita mi sono trovato di fronte a uomini che morivano perché non avevano niente da mangiare. La pelle morta, svuotata pendeva loro dalle ossa in pieghe rugose, i loro occhi fissavano senza vedere. Avevano venduto anche le assi delle loro capanne e i vestiti; e si aggiravano sotto il sole cocente con i testicoli che penzolavano giù, come due olive avvizzite. E i bambini… Scheletri contorti, ossa curve, braccine che sembravano ali e ventri gonfi, sporgenti come tumori. Le donne si lasciavano cadere, i seni che pendevano come tasche vuote. Ma erano poche, le avevano già prese o uccise.
Già: c’è un pre-genocidio in Centrafrica. Lentamente, con degnazione, il mondo si muove. Una risoluzione del Consiglio di sicurezza dell’Onu approvata ieri dà al contingente che è già nel Paese il diritto per un anno «di difendere i civili e ristabilire l’ordine». Articolo sette, non si scherza: si può usare, questa volta, la forza. Al lavoro provvederanno i francesi, 1200 in tutto. Ieri sera il presidente Hollande ha parlato alla nazione annunciando l’azione militare «immediata» dopo il via libera Onu. Già nella notte. «L’intervento - ha detto - sarà rapido e non sarà finalizzato a durare nel tempo». Gli inglesi stanno pensando a un sostegno logistico. Gli «chasseur alpins», con i buffi baschi neri grandi come padelle, sono già qui: ma non hanno fatto nulla, finora. Hanno difeso solo l’aeroporto di Bangui e i connazionali. «Non siamo qui per impicciarci dei fatti interni». Già: hanno conquistato questo Paese quando era dissanguato dalle razzie dei sultani schiavisti arabi. Lo hanno accudito amorevolmente, con i lavori forzati, le requisizioni, lo sfruttamento, una bella colonia dove gli abitanti girovagavano tramortiti dalla paura e dalla malattia del sonno. È stato bravo De Gaulle a concedere l’indipendenza senza decolonizzare. Adesso bisogna, di nuovo, far un po’ di pulizia.
La verità è che lo Stato non esiste più, si è estinto, a furia di rubare uccidere intervenire è evaporato: non più esercito, polizia, amministrazione giudici maestri esattori, un territorio del non diritto. Nel vuoto affiorano i fanatismi, musulmani contro cristiani, aiutano almeno a uccidere. Non è più l’epoca in cui i Paesi africani erano conosciuti più per il nome del loro dittatore che per chi li abitava: Bokassa, Mobutu, Amin, Menghistu. Chi ha mai pronunciato il nome di Michael Djotodia, presidente sessantenne autoproclamato e senza legittimità che vive nella sua villa nel campo di Roux circondato da scherani armati e da sicofanti della stessa risma? Ha dita grosse, grasse come vermi, gesticolazione a larghe ruote. Lo incoraggia a tenere il potere su giacimenti di diamanti e su cinque milioni di sudditi svenati dalla paura e dalla miseria la giovane moglie Chantal, una ragazza del Benin. Ha già fondato una fondazione caritativa, una specie di mania delle mogli dei satrapi africani. Dal suo palazzo Djotodia lancia spedizioni punitive nei quartieri nemici, quelli dei non musulmani, e ordina delitti mirati di oppositori. Riceve anche uomini di affari, sudafricani e asiatici. Vicino a Boromata, il suo villaggio natale, sul lago Mamoun hanno appena trovato il petrolio. Per governare un Paese così bisogna aver ottenuto la grazia dell’aridità. Djotodia non può attraversare la sua capitale senza essere braccato dalle sassaiole. Ma il suo sostegno sono le bande Séléka, ciadiani, lanzichenecchi del Darfur, e centrafricani. Quasi tutti analfabeti delle prefetture musulmane del Nord, Vakaga e Bamingui, dove vive appena il 4% della popolazione. Il potere vero lo tiene in pugno un uomo dalle labbra strette e dagli occhi sempre nascosti da occhiali a specchio, il «generale» Noureddine Adam, un rounga musulmano che ha imparato il mestiere in Sudan e Egitto, ex guardia del corpo di uno sceicco ad Abu Dhabi. Arabizzante, impenetrabile, dirige la polizia politica del nuovo regime. È il solo uomo in Centrafrica a disporre di una autorità. Vive in una villa nel centro di Bangui davanti agli uffici di Air France. I suoi vicini sono abituati alle urla, alle implorazioni: dei torturati che invocavano pietà. Il 22 ottobre erano così forti che hanno detto basta, e hanno chiesto l’intervento del contingente congolese dalla forza di pace. Tra selekisti e caschi blu si è sfiorata la battaglia. È accorso il presidente; ha gridato contro i soldati Onu: «Dannazione, non ci lasciate lavorare in pace!».
Il potere dei mercenari musulmani arriva fino a una linea di confine che corre da Batangafo a Bria. Là il rumore della guerra è ancora più terribile e l’odore ancora più ignobile. Non c’è da sbagliarsi, infine. La porta dell’inferno. A Sud ci sono le milizie «cristiane», armate di feticci anti-pallottole, coltelli e fucili da caccia. I loro metodi sono identici a quelli degli avversari, uccidere e saccheggiare. Odiano soprattutto i peul mbororo: nomadi le cui mandrie da sempre attraversano i campi dei contadini cristiani. A settembre migliaia di animali sono stati rubati e i pastori massacrati. Nella regione di Bassangoa nessuno va più nei campi; musulmani e cristiani per paura vivono nella savana, si nutrono di vento come il Rabicano dell’Ariosto.