Gian Antonio Stella, Corriere della Sera 6/12/2013, 6 dicembre 2013
IL FESTIVAL DELLE PROMESSE DEI MISTER PREFERENZA
«Mi dissero: “Emi’, fatti vedere perché dicono che è inutile votarti essendo morto”. Mica potevo mettere manifesti: “L’onorevole Colombo nega d’essere defunto”! E così per giorni e giorni dovetti girare come un pazzo perché tutti mi vedessero. Vivo». Erano feroci tra gli stessi amici di partito, come raccontava ridendo Emilio Colombo, le guerre delle preferenze.E chi se le ricorda si sente gelare il sangue all’ipotesi: oddio, la sentenza che ha sepolto il Porcellum non resusciterà il voto personale?
Sono entrati nella leggenda, i trucchi per controllare i voti degli elettori. Ai tempi in cui ancora non c’erano i cellulari e la possibilità di imporre ai «clientes» di fare la foto alla scheda, i gran feudatari del voto mettevano a punto tutte le combinazioni possibili (prima questo numero, poi quest’altro, poi quest’altro ancora in ordine perfetto…) così da controllare la fedeltà dei propri beneficiati. Se non veniva dimostrata, niente trasferimento del figlio militare in una caserma vicina a casa, niente raccomandazione per un posto da bidella, niente sostituzione estiva all’Aci… Erano così tanti, i sistemi di controllo e gli accorgimenti necessari per costruirsi un buon bacino elettorale che Aldo Giannuli, dietro lo pseudonimo di Algido Lunnai, si sentì di dover scrivere il Manuale dell’aspirante deputato . Un libro mai letto, si capisce, da chi già sapeva tutto.
Come Vittorio Sbardella, detto «lo Squalo», che con la sua mascella da centurione e l’accento da «Gregorio, er guardiano der Pretorio», era il braccio destro elettorale di Giulio Andreotti e quando zio Belzebù diventò senatore a vita si candidò a raccogliere le sue vagonate di voti personali (367.000 alle politiche del 1972) e sparò a zero su tutti i possibili concorrenti, bollati come mezze cartucce: «De eredi, credime ammè, nun ce ne stanno proprio».
Né aveva bisogno di leggere quel libro Alfredo Vito, il proconsole diccì che contendeva l’hinterland napoletano a Francesco Patriarca detto «Don Ciccio ‘a Promessa» e si vantava di saper rovesciare al volo ogni parola leggendola al contrario («Balestra? «Artselab». Scala a chiocciola? «Aloiccoihc a alacs») ma soprattutto d’avere incasellato («E prima del boom del computer!») la bellezza di 30.000 elettori: «Se vedo una faccia non la scordo. Così i nomi. E allo spoglio ero capace di sommare a mente i voti di 50 seggi».
Lo chiamavano «Vito ‘a Sogliola» per la capacità mimetica di appiattirsi sotto la sabbia tra i due balenotteri napoletani Antonio Gava e Paolo Cirino Pomicino, per riemergere gonfio di voti come un pesce-palla: 104.532 nel ‘92 quando già era passata la preferenza unica (di qui il nomignolo «Mister 100.000 preferenze») ma addirittura 154.474 preferenze nell’87. Senza un discorso alla Camera. Senza un’apparizione televisiva. Senza un manifesto. Solo rapporti personali.
Come Totò Cuffaro, che teneva sulla scrivania uno schedario con migliaia di nomi ma in realtà sapeva tutto a memoria. E spiegò a Sebastiano Messina: «La mia porta è sempre aperta e dunque bussano in tanti. Viene padre Lo Pinto e mi invita alle prime comunioni e alle recite teatrali, io ci vado e lo aiuto a costruire il palco. Quando arrivano le elezioni è lui che mi chiama e poi siede accanto a me dicendo ai parrocchiani: “Totò è amico nostro, è cresciuto con noi, votiamolo”. Anche le suore sono con me. Le “Collegine”, le suore del Collegio di Maria, in Sicilia hanno cinquanta istituti. Ne scelga uno a caso, ci vada e chieda per chi hanno votato. Le diranno: Totò Cuffaro». E poi c’erano i medici di base e i lavoratori socialmente utili e le associazioni no-profit e i circoli anziani e gli oratori parrocchiali... «Incontro da anni duecento, trecento persone al giorno. Ascolto. Ricordo le facce, i nomi, i progetti. » Progetti? «Sportivi, culturali, sociali...». Insomma: le pratiche clientelari? «Se intende “clientelismo” nel senso dispregiativo, è una parola che mi fa schifo. Se intende stare ad ascoltare gli amici...»
Anche Remo Gaspari, che resterà nella storia, a dispetto dei detrattori, come il panciuto pluri-ministro di marzapane che strappò l’Abruzzo alla povertà portandolo a un reddito pro capite europeo, conosceva una per una le sue pecorelle. E ogni volta che c’era un’elezione finiva sotto un acquazzone di preferenze che ricambiava andando a tagliare le salamelle e le caciottine nei garage-taverna degli elettori e l’estate non andava alle Seychelles ma alla pensione Sabrina di Vasto dove si piazzava in spiaggia sotto un ombrellone, con una stupefacente maglietta da marinaro a righe bianche e blu orizzontali e riceveva lì i maggiorenti del partito. I quali a volte si spingevano a omaggiarlo con parole di inarrivabile ossequio come quelle del sindaco di Cerchio, Alberto Tucceri, primatista mondiale dei leccapiedi: «Gaspari! Soave creatura, bontà di sacrificio e di amore! Ti chiamerò sempre con tenero slancio...».
E come dimenticare il monarca delle preferenze pugliesi Vito Lattanzio? Per i conterranei democristiani era una specie di Mamma Chioccia che provvedeva a procurar becchime per tutti i pulcini che pigolavano intorno e distribuiva assessorati all’urbanistica, seggi nel cda delle municipalizzate, assunzioni all’ente lirico… E quando fece il ministro della Difesa riversò tanto affetto sui generali, colonnelli, capitani, tenenti, sottotenenti, sergenti, caporali e sottopanza pugliesi che a certo punto su un muro del ministero apparve una scritta a caratteri cubitali: FF.AA.BB. Forze Armate Baresi.
Per questo, quando Mario Segni che si battè come un leone per abolire quel sistema orribilmente degenerato ha saputo della sentenza della Corte Costituzionale che rischia di ripristinare le preferenze, si è sentito cadere le braccia: «Ma come, torniamo a quella schifezza?». Perché sì, allora, come ha scritto Filippo Ceccarelli, «quando la tombola si chiamava ancora tombola e non bingo, il voto di preferenza era una scelta così determinante che sulla scheda, in cabina, molti italiani si esprimevano attraverso ambi, terne e quaterne. Ed era una lotta pazzesca non solo tra i partiti, ma soprattutto fra le correnti e ancora di più tra i singoli candidati».
E per far mandare a mente agli elettori i nomi da votare i più fantasiosi ne inventarono di tutti i colori: poesiole, canzoncine, cruciverba, rime baciate, normografi con i nomi predeterminati ma soprattutto date. Clemente Mastella, ad esempio, raccontò un giorno come aveva fatto a debuttare giovanissimo in Parlamento sulla scia di Ciriaco De Mita. Quelli che dovevano entrare erano piazzati in una precisa casella della lista: «Era il 1976 e invitammo i cittadini di Benevento a votare l’anno, perché Ciriaco De Mita era il numero 1 della lista, io ero il 9, Gerardo Bianco il 7 e Giuseppe Gargani il 6».
Quasi quarant’anni dopo, c’è ancora chi sospira di malinconica nostalgia… E ti chiedi: possibile che non esistano vie di mezzo tra la lista bloccata dove decide tutto il padrone del partito e quel sistema scellerato che grazie a Dio ci lasciammo alle spalle?
Gian Antonio Stella