Dario Di Vico, Corriere della Sera 6/12/2013, 6 dicembre 2013
IMPORTARE È NECESSARIO NOI AGGIUNGIAMO QUALIT
Va detto subito e con la massima chiarezza: l’iniziativa di portare in segno di protesta alcuni maiali davanti a piazza Montecitorio, come ha fatto ieri la Coldiretti, non può essere assolutamente condivisa. È segno di una visione arruffona della rappresentanza sociale. Se quell’immagine dovesse essere ripresa da qualche giornale o televisione in giro per il mondo sappiamo chi dovremo ringraziare dell’ulteriore e gratuito discredito gettato sulle istituzioni del nostro Paese. I problemi ci sono e vanno affrontati a viso aperto, vince chi mette in campo soluzioni e non chi si presta, dallo scranno di ministro o dalle sedi associative, ad operazioni di comunicazione-scandalo che lasciano il tempo che trovano.
La discussione vera riguarda il futuro del made in Italy nel settore agro-alimentare e quali sono le strategie/provvedimenti utili per favorirne la diffusione. Purtroppo anche in campo agricolo siamo un Paese importatore di materie prime, le filiere totalmente autonome sono un paio/forse tre (uva da vino, polli e uova) e non ricorriamo all’estero solo dove possiamo vantare numerose Dop e Igp (vino, prosciutto crudo e formaggi). Importiamo però il latte, i cereali, l’olio e la carne in percentuali diverse che vanno dal 20 al 50% del consumo.
Bisogna saperlo. La nostra forza, dunque, non sta solo nell’avere alcune materie prime di eccellenza bensì anche e soprattutto nell’assoluta qualità del processo di trasformazione. Prendete il caffè: sono italiani alcuni dei marchi più prestigiosi del mondo, eppure non disponiamo di piantagioni. E ancora: importiamo le nocciole che servono per le creme spalmabili e la carne necessaria per produrre alcune specialità della salumeria. Gli esempi potrebbero continuare ma un numero va tenuto a mente per fotografare la produzione del valore aggiunto nella filiera agro-alimentare italiana: a fronte di una produzione agricola nazionale per la trasformazione di circa 30 miliardi di euro l’industria ne fattura 132, di cui 27 all’estero.
È legittimo che i coltivatori si mobilitino per la difesa dei propri interessi, per chiedere maggiore remunerazione delle produzioni nazionali e il massimo rigore nella lotta alla contraffazione, devono però aver presente il contesto nel quale difendere le ragioni del made in Italy. E allora la verità è che siamo troppi timidi nella promozione, la Germania vende fuori dai confini nazionali più di noi senza avere i prodotti che può vantare la cultura eno-gastronomica del Belpaese, esportiamo 27 miliardi di euro ma nel mondo vengono «spacciati» oltre 50 miliardi di euro di confezioni italian sounding. È vero che recuperiamo all’estero circa 3 miliardi l’anno ma è ancora troppo poco, occorre accelerare e rafforzare le reti lunghe che portano anche nei paesi emergenti la nostra cultura del cibo e il nostro modello alimentare. I successi di Eataly dimostrano che questa è la strada e che se c’è un settore nel quale un mondo più aperto non ci deve assolutamente far paura è proprio quello del food.
@dariodivico