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 2013  dicembre 06 Venerdì calendario

SEMPRE REGISTA DEL CIRCO MEDIATICO


In una lettera all’amico Francesco Florimo, Giuseppe Verdi scrisse: «Torniamo all’antico, sarà un progresso». Poco tempo dopo, questa frase circolava sulla stampa, con tanto di commenti e elucubrazioni. Divenne, insomma, un manifesto, sebbene fosse un inciso nato da un epistolario privato.
«Non c’è da stupirsi: Verdi è stato bravissimo a creare il suo personaggio, a usare il circuito mediatico dell’epoca», spiega Emilio Sala, direttore scientifico dell’Istituto nazionale Studi verdiani. E così, scorrendo le opere in mostra alla Gam, dai ritratti intensi di Morelli alle espressioni enfatiche ma eleganti di Hayez, si comprende come il compositore sia stato un abilissimo portavoce di se stesso, in un rapporto osmotico con il suo mondo: «Seppe prendere e restituire — continua Sala — Ispirò gli artisti e da questi seppe trarre spunto per gli allestimenti». Come un moderno comunicatore, aveva compreso che il silenzio pesa. Il non intervenire pubblicamente scrivendo di musica o di attualità (a differenza di Wagner, che invece si fece coinvolgere più volte in questioni di poetica) accresceva la curiosità intorno a lui.
«Verdi è stato uno dei personaggi più ritratti nelle caricature dell’epoca — spiega il professore —. Anche perché la censura lo prese di mira più volte». Non solo caricature: è stato anche molto fotografato, specie nella sua vita milanese: «catturato» per strada, mentre legge il giornale, in un viaggio in Russia, oltre naturalmente alle numerose immagini in posa. Il mondo voleva «lui», la sua persona, non solo la sua opera, come se l’allora nascente industria dello spettacolo avesse compreso il valore di chi manda il messaggio, oltre al messaggio stesso (il mezzo, quello, verrà dopo).
«La sua straordinaria intelligenza — chiosa Sala — sta nell’aver capito tutto questo e nell’aver usato simili meccanismi per costruire il suo personaggio. Sapeva che se scriveva qualcosa di incisivo in una lettera, questa sarebbe stata resa pubblica. Sapeva che il mantenere un rapporto assiduo ma autonomo con i salotti milanesi gli avrebbe giovato». Il salotto di Clara Maffei, prima di tutto, ma anche quello di Emilia Morosini.
Il fatto è che Verdi odiava le etichette: comprendeva che la sua opera era moderna («perché pochi come lui hanno saputo evolversi nel corso della propria carriera e fare opere così diverse l’una dall’altra», afferma Sala) e perciò soffrì quando il circuito mediatico costruì la ben nota contrapposizione «Verdi uguale tradizione» e «Wagner uguale avanguardia».
Perché lui non era «italiano nel Dna — ragiona Sala —: la sua italianità è stata sempre un processo culturale». Anche la stessa immagine di Verdi come cantore del Risorgimento forse è più che altro una «retroiezione» (proiezione al passato) costruita nello Stato postunitario, come se si avesse bisogno di un puntello culturale forte per reggere un rivolgimento politico così importante. Certo, le sue idee politiche sono note, anche perché ha fatto attiva pubblica come senatore dal 1874. «Però — fa notare Sala — il coro del Nabucco funziona bene anche senza che gli vengano attribuite caratteristiche risorgimentali». Resta il fatto che Verdi sapeva quanto questa immagine potesse far presa. Leggendo gli episodi più significativi della sua vita (dall’arrivo a Milano all’allontanamento brusco da questa città e dall’assenza di quasi vent’anni) quello che emerge è un Verdi dall’italianità molto particolare: curioso, cosmopolita, aveva voglia di continue innovazioni, di conoscere (conquistare?) nuovi territori. «Quando lui arrivò a Parigi — dice ancora il professore — questa era una straordinaria capitale della modernità. Lui non aveva ancora, come si dice, sfondato, però Verdi divenne subito un compositore francese, perché con opere quali Jérusalem seppe interpretare quella sensibilità».
Dimostrando, così, un’ulteriore prova dell’empatia con il suo tempo, capacità mimetica. Persino il suo look era studiato: la barba, lo sguardo, la posa, l’andatura. Emilio Sala nota come fosse proprio lo sguardo uno degli elementi chiave per capirne la personalità: «In giro ci sono migliaia di sue immagini, però, stringi stringi, quella più famosa resta il ritratto di Boldini, quello con il cilindro per capirci. Perché ha uno sguardo autorevole eppure dolente. Esattamente i suoi due lati contrapposti». Unendoli, ecco il carattere verdiano: perentorio, eppure venato dal dubbio novecentesco; vittima della censura (si guardino le splendide caricature di Melchiorre Delfico) eppure segreto vincitore sul potere grazie all’irriverenza della satira; icona sulle millelire eppure a suo agio anche nei fumetti. Così, ancora oggi, Verdi è il migliore stereotipo di Verdi.
Roberta Scorranese
rscorranese@corriere.it