Aldo Grasso, Corriere della Sera 6/12/2013, 6 dicembre 2013
C’È MOLTA ASTUZIA NELLA BONTÀ DI «MISSION»
C’ è molta astuzia nella bontà, almeno in termini comunicativi. Quando la bontà viene esibita e rappresentata, sotto forma di presa di coscienza, di svelamento delle condizioni disumane in cui vivono i profughi, di faro acceso sulle tragedie, è difficile mantenere lucidità. L’ostentazione della bontà tende poi a nascondere le politiche e le ideologie che si agitano sullo sfondo. Non basta una semplice didascalia per spiegarci la politica criminale della Siria e il ruolo degli estremisti islamici, in una ampia regione dove gli stati democratici sono ben pochi.
La prima puntata di «Mission» ci ha mostrato Al Bano e le figlie Cristel e Romina Jr. in un campo profughi della Giordania, a fianco di UNHCR, e Francesco Pannofino e Candida Morvillo nel Mali devastato dalla guerra civile (Rai1, mercoledì, ore 21.15). Un equivoco di fondo, poi, sta nella definizione di ciò che abbiamo visto in onda. Lanciato — non si capisce se consapevolmente, per ragioni promozionali o in modo invece un po’ sprovveduto — come «reality umanitario», termine fatto apposta per catalizzare polemiche di ogni tipo e da ogni direzione, «Mission» è stato in realtà ben altro. Un documentario commentato in studio, che all’approfondimento del giornalista ha preferito lo sguardo e la voce narrante dei vip di turno o le musiche tensive da dramma incombente. Un talk show, condotto maluccio da Michele Cucuzza e Rula Jebreal, insistentemente mesto per sottolineare l’importanza delle parole e delle testimonianze, anche quelle più scontate, e per sancire l’impegno del cooperante ONU.
Un ibrido molto tradizionale, in fondo, che trova una perfetta sintesi nella chiusura musicale priva di ogni spettacolarità, tra Roger Waters dei Pink Floyd (Waters è quello che nei suoi ultimi concerti mette in scena simboli nazi e palloncini a forma di maiale con la stella di David) e Masini che canta «Imagine» di John Lennon. Costa poco mostrarsi buoni.