Massimo Vincenzi, la Repubblica 6/12/2013, 6 dicembre 2013
USA, ONDATA DI SCIOPERI DEI FAST FOOD GUERRA DEI SALARI DA NEW YORK A DETROIT
«We can’t survive», non possiamo sopravvivere con 7 dollari 25. Jamal tiene in mano il suo cartello rosso, lo mostra orgoglioso alle telecamere, ai fotografi. Usa la frase che ha scritto come un intercalare: «Così non posso sopravvivere ». Cappello di lana verde sulla testa, felpa blu, è uno delle centinaia di manifestanti che si sono dati appuntamento qui a Fulton Street per chiedere l’aumento del salario minimo. Lo sciopero va in scena in oltre centro città: da Washington a Chicago, da Boston a Philadelphia migliaia di manifestanti ripetono gli stessi slogan. A New York i cortei iniziano all’alba, a Midtown, dove viene occupato per qualche minuto il McDonald’s di Times Square e vanno avanti sino alla sera. Questo di Brooklyn è uno dei più numerosi, le vetrine sotto pacifico assedio sono quelle di Wendy’s, un’altra delle catene incriminate. Nella metropoli dove Bill de Blasio oggi prenderà il potere grazie anche alla promessa di aiutare questi uomini e queste donne, i dipendenti dei fast food sono quasi sessantamila, la paga media è inferiore ai 9 dollari, la maggior parte non supera gli otto: «Io lavoro anche 15 ore al giorno, non ho quasi mai riposo ma con i soldi che guadagno non riesco a mantenere la mia famiglia. Ho quattro figli e la nostra sopravvivenza è legata agli aiuti pubblici come i buoni pasto. Il mio manager mi ha detto che rischiavo a venire qui, ma non mi importa » spiega, quasi urlando, Jamal.
Il presidente Obama è il loro primo sostenitore: «La lotta alle diseguaglianze è la sfida più importante del nostro tempo», sostiene nei suoi discorsi. L’ultimo due giorni fa in una delle zone più povere di Washington: «L’aumento del salario minimo farà bene alla nostra economia e alle famiglie americane». Ma la legge che dovrebbe portare la cifra a 10,10 dollari è bloccata al Congresso dall’ostruzionismo dei Repubblicani che spalleggiano le categorie degli imprenditori. «Chiedere 15 dollari all’ora vuol dire non aver nemmeno voglia di aprire una trattativa», obiettano i rappresentanti della National Restaurant Association, che poi se la prendono con i sindacati: «Hanno organizzato tutto loro».
Zac ha poco più di trent’anni, indossa una delle maglie arancioni della Communities for changes che si batte al fianco dei lavoratori, respinge le accuse: «Sono tutte bugie. Questa gente rischia in prima persona pur di far valere i propri diritti: non li possiamo lasciare soli». Il corteo si sposta lungo la via sotto un cielo bianco impregnato di nebbia, assedia le porte di Wendy’s sbarrate per “motivi di sicurezza”. Nello Starbucks che c’è qui di fronte entra una troupe della Cnn e riesce a scambiare due parole con i ragazzi dietro il bancone, subito arriva il manager e rimprovera violentemente i suoi: «Basta», grida. Aliyan ha cinquant’anni, i capelli neri lunghi sulla schiena, pettinati con le treccine. Tra un coro e l’altro racconta: «Lavoro dal 1999 con la stessa paga, non arrivo a 8 dollari l’ora: non ho mai avuto un aumento e invece i prezzi continuano a crescere », poi si gira verso i vigilantes e scandisce insieme agli altri: «Victory, victory». Per superare l’impasse del Congresso molti Stati e città si stanno muovendo con leggi autonome, lo fanno California, Connecticut, Rhode Island e la capitale, Washington che ha alzato il salario a 11,50 dollari. Gli economisti si dividono, secondo alcuni ci sarebbero effetti negativi sull’occupazione e di sicuro arriverebbe un aumento dei prezzi degli hamburger. Ma la maggior parte degli analisti invece è unita nel pensare che ci sarebbero solo benefici a partire da un aumento dei consumi. Tyesha se ne sta un po’ in disparte, sul bordo del corteo, tiene per mano i suoi due bambini, parla piano come se stesse riflettendo: «Io non sono un’esperta, non ho studiato ma so che più che lavorare tutto il giorno non posso fare. Alla mattina faccio la guardia giurata in un grande magazzino, alla sera vado a fare le pulizie in un negozio vicino a casa mia su nel Bronx. Eppure non ho i soldi per pagare una casa per me e per i miei figli. Io so solo questo e oggi ho fatto sciopero perché voglio che qualcuno ci ascolti, che qualcuno si occupi anche di noi che siamo invisibili».