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 2013  dicembre 06 Venerdì calendario

FATTORE SONIA, LEADER CONTRO I TABÙ DELL’INDIA MA SEMPRE IN FUGA DALL’ITALIAN CONNECTION

E ORA TOCCA AI SUOI FIGLI –

“Nuova Delhi, 25 gennaio. Un magistrato di Nuova Delhi ha annunciato che Rajiv Gandhi, figlio maggiore del primo ministro indiano signora Indira Gandhi, intende sposare una ragazza italiana di 21 anni: Sonia Maino, figlia di un costruttore che vive nel Torinese” (Corriere della Sera, 1968).

«Sonia è la cosa più simile a una regina che l’India possieda» (Sunday Times, 1994).

La nebbiolina sui manghi, il coro dei corvi. Nel vecchio bungalow al 10 Janpath Road, costruito dagl’inglesi senza sapere che gl’indiani ne avrebbero fatto una specie di 10 Downing Street, tutte le mattine di marzo Sonia fa i soliti venti minuti di yoga: gliel’ha insegnato mami Indira. Nella sede del partito del Congresso, ha finito di ricevere i poveri: «Il primo punto del mio programma». Vive seminascosta, ogni tanto va alla messa della Nunziatura, un giro al Khan Market, la cura dell’orto, il digiuno del venerdì. Paola, la mamma vera, quest’anno non è venuta da Orbassano a svernare. Squilla il telefono: buongiorno, è l’ambasciata italiana… Foss’anche Napolitano, Sonia risponde sempre in inglese: I’m busy, potete richiamare più tardi?... Stiano alla larga, non sono giorni, anzi sono i lunghissimi mesi dei due marò incarcerati. La più importante e meno conosciuta delle nostre connazionali all’estero, secondo Forbes la donna più potente del mondo dopo Angela Merkel, s’irrita per quest’italianità che da sempre la bracca, spesso l’inguaia, regolarmente la costringe a giustificarsi. Italiani traditori: l’ha dovuto gridare forte, stavolta e per la prima volta. «Un tradimento inaccettabile», questi marò che a Natale erano rimpatriati con la promessa di tornare agli arresti e poi ci avevano provato a non rientrare più: «Nessun Paese può e dev’essere autorizzato a sottovalutare l’India!». Sa bene che cos’è un tribunale indiano, l’ha provato sulla pelle di famiglia. Ma ormai se ne sussurravano troppe, sui negoziati segreti per scarcerare i due fucilieri, ed era il suo partito a chiederglielo: di’ qualcosa, Sonjati, nel 2014 si vota e quest’Italian Connection può costarci cara…

PATRIA DA DIMENTICARE. Ci ha messo una vita a cambiare tricolore. Quarantotto anni, ad andarsene per sempre. Edvige Antonia Albina Maino non si chiamerebbe nemmeno Sonia, perché ai parroci non piacevano i nomi russi che papà Stefano dava ai suoi affetti (Anuska e Nadia, le sorelle; Stalin, il cane), segno di gratitudine verso un popolo che l’aveva salvato nelle steppe della guerra. Veneta di nascita e torinese di migrazione, Sonia rinunciò trent’anni fa al passaporto della questura. Un’antitaliana in anticipo. Una non allineata. È almeno dal 1965 che non si sente più una Maino: andò a Cambridge per l’inglese, un amico tedesco le presentò in un ristorante greco un Rajiv indiano che studiava ingegneria e sognava di volare coi Boeing e aveva un Maggiolone azzurro, da principe azzurro. La ragazza rientrò nella villetta bianca d’Orbassano e decise rapida: addio lavoretti da hostess alle fiere, ciao ciao compagne delle salesiane, stop col twist, sarebbe emigrata nell’ombra eterna dei Gandhi.
Sulla scala sociale indiana, anche se sposano un braminico, gli stranieri non esistono: sono senza casta. Sparire, a lei è riuscito benissimo: quand’era solo la silenziosa nuora d’Indira, “Maino Lisa” la chiamavano per l’enigmatico sorriso, veniva il premier italiano Goria e lei si defilava. Si presentava un giornalista Rai? Lo spiazzava parlando l’hindi povero dell’Uttar Pradesh. Se Orbassano dedicava una strada ai Gandhi, lei non compariva. Le davano un premio in Campidoglio, sindaco Rutelli, e ci andava a patto che nessuno l’avvicinasse. Monica Bellucci fu scritturata per interpretarla in un film, e partì la diffida. Perfino Papa Wojtyla: una volta atterrò a Delhi e Sonia non si presentò. S’è immersa nel Gange, per far capire chi era diventata. E nel testamento ha già chiesto la cremazione indù. «All’inizio l’Italia m’è mancata, poi ho deciso che le mie radici dovevano affondare profondamente nella mia nuova terra». Dai tamarindi del suo giardino ha imparato a reggere insulti monsonici: angrej, la straniera, gungi gudyia, la bambola muta, e poi strega delle Alpi, mafiosa, Monica Lewinsky, casalinga d’Orbassano… Qualcosa, certo, ci hanno messo le periodiche accuse d’aiutare oggi Selenia e domani Finmeccanica. O l’amico Ottavio Quattrocchi che un giorno l’agganciò con Rajiv in un parco di Delhi e per vent’anni trascinò i Gandhi nel caso Bofors, lo scandalo degli scandali, armi svedesi e conti svizzeri sospetti. Alla fine, però, a pendere è sempre stata quella domanda posta un giorno da un leader nazionalista, Bal Tackeray: «L’Italia accetterebbe che a comandarla ci fosse un indiano?». «Con Sonia», ha scritto il New York Times, «è tornata nel Paese una xenofobia che sembrava dimenticata». «L’Italian Connection», corregge un nostro diplomatico, «è diventata un po’ una fissa nel dibattito politico. Sonia esagera, dovrebbe rilassarsi. Se va bene, noi la vediamo qualche volta alla festa nazionale indiana e ci dice solo how are you? Ci considera politicamente tossici e la sua presenza sulla scena indiana ci ha sempre danneggiato, altroché...».

QUATTRO FUNERALI E UN MATRIMONIO. I Gandhi sono per tutti The Family: kennedyani, i più imitati e assassinati. Come i Bhutto del Pakistan, divinizzati e sterminati. Del Mahatma sono solo gli omonimi, ma si sentono gli epigoni: «Con loro», diceva Dileep Padgaonkar, editorialista del Times of India, «il potere è diventato ereditario come ai tempi delle antiche dinastie». Oggettivazione del carisma, la definì un sociologo: da Nehru che raccolse il sangue di Gandhi a Indira che morì su un’Ambassador bianca con la testa tenuta da Sonia, da Sanjay che precipitò pilotando l’aereo a Rajiv che un pomeriggio telefonò al suo Rahul studente in America, abbracciò Priyanka che preparava gli esami di psicologia, disse a Sonia «vado a Madras per un comizio» e, lasciato senza scorta, finì spappolato da una kamikaze. Il sari rosso e dorato delle lotte e delle nozze. Il sari bianco e stropicciato dei lutti e delle nottate da passare. Oggi a Sonia non dispiace mangiare sola. Dopo Rajiv, il fior di loto reciso, si segregò tre anni a rileggerne i cinquecento discorsi e a dedicargli un libro. Raggiunta l’età d’Indira quando morì, 67 anni, fosse per lei leggerebbe tutto il giorno o farebbe due chiacchiere con l’amico Kabir Bedi, magari sfoglierebbe le centomila foto dell’album: «Le mie radici sono in India, i miei figli sono indiani, è qui che sono sepolti i miei sogni», disse quando Rahul diede fuoco alla pira del padre e tutti le dicevano se non fosse il caso di tornare in Europa.
Pochi l’hanno vista piangere. «È puntuale, riservata, scrupolosa, esercita un controllo su se stessa che impressiona», disse Giovanni Spadolini mentre l’osservava deporre l’offerta per l’anima sul corpo straziato di Rajiv, un po’ di canfora e di cardamomo, prima di bruciare tutto e sparire su un treno. C’erano un picchetto di 165 soldati, 64 governanti a studiarla, l’abbraccio di Mandela e l’inchino di Arafat, due urne di ceneri da cospargere nel Gange: «Quest’assassinio resterà un mistero», disse lei. «Dietro quell’impassibilità», ricorda lo scrittore Dominique Lapierre, «Sonia covava una grande paura. Bastava il clic d’un fotografo a spaventarla, ha sempre saputo il sangue che l’aspettava». Quanto dolore, però. La solitudine del matrimonio, la tiara di tuberose portata da zio Matteo perché papà non condivideva e non venne da Orbassano (lei gli regalò una gracula religiosa, per non farsi scordare). Il primo figlio mai nato. Indira, “Dadi”, che fu tutto meno che una suocera. Una regina madre piuttosto, legata in un affetto che ingelosiva tutti: «È un fiore», diceva la prima ministra, divertita dai racconti sull’Italia e sempre pronta a badare ai nipoti, anche quando riceveva Jackie Kennedy o Gromyko. Sonia ricambiava mami Dadi tenendole casa, scegliendole i vestiti e i menù di lavoro (mai maiale, mai mucca), accompagnandola a visitare Pertini e Berlinguer, Reagan e Breznev, la Thatcher e Kohl, una volta pure Aldo Moro, o nel periodo nero degli arresti e dell’ostilità cucinando le lasagne da portarle in carcere… C’è Sonia che sente gli spari e accorre in accappatoio e si dispera per i soccorsi lenti, quando la guardia del corpo tradisce e uccide. Prima che brucino la salma, l’immagine della nuora che s’alza e per un attimo passa il fazzoletto a pulire il volto grigio d’Indira.
PARENTI SERPENTI, JUNGLA NERA. «Avevo vagamente idea che l’India esistesse da qualche parte. Serpenti, elefanti, jungla. Ma non sapevo dove stesse sulla mappa, né di che cosa si trattasse». Non è stato facile. La democrazia più grande del mondo ha due volte gli elettori del Parlamento europeo, 4.635 comunità etniche, 17 lingue ufficiali, 845 dialetti, 330 milioni di divinità, un 5 per cento di ricchi che possiede la metà di tutto, due abitanti su tre poverissimi. Quando Sonia arrivò, c’erano tanti lebbrosi e mendicanti quanti gli abitanti del Portogallo e dell’Olanda messi insieme. Ogni giorno nascevano 40mila bambini e ne morivano 10mila. Ha imparato a conoscere ascoltando molto e parlando poco, gli anni delle sterilizzazioni forzate e dell’Emergency, del fanatismo tribale e della crescita record, dell’atomica pakistana e dei Non Allineati. Il disastro dell’auto Maruti e il miracolo Tata. A lungo Sonia non s’è occupata di politica, il suo dio erano le piccole cose e le interessava far bene la crema di guabaya o imparare l’arte del restauro. Ma è stata la politica, alla fine, a occuparsi di lei: l’unica volta che litiga con Rajiv e vuole quasi scappare, morti Sanjay e Indira, è quando lui le dice «sono un Gandhi, tocca a me»; l’unica volta che si sente come l’Ada Corisbant di Salgari, prigioniera della jungla nera, è quando muore Rajiv e le dicono «tocca a te» (e lei svicolerà dalla carica di premier, dalla maledizione dei sikh che hanno giurato d’uccidere i Gandhi fino alla centesima generazione, per diventare negli ultimi dieci anni la potente padrona del più grande partito del mondo, 40 milioni d’iscritti).
I serpenti li ha trovati, come no. Il peggiore in famiglia, naturalmente: la cognata Maneka, l’ex modella tanto ambiziosa quanto sfaticata e detestata. Invidia Sonia: quest’italiana che già sembra un’erede, sempre davanti a lei, addirittura ospite di Zubin Mehta quando a Londra suonano per la prima volta l’inno dell’ex colonia… Maneka si diverte a far passare Sonia per un’Imelda avida di sari costosi e di weekend a Hong Kong: «In visita di Stato a Seul, ha chiesto in dono un vaso Ming del museo!». Con la morte di Sanjai, sarà Indira a cacciare la perfida nuora, che da quel giorno diventerà pure un’avversaria politica. Ma le liti rimangono: clamorose, pubbliche, sofferte, Maneka a strillare e Sonia a ingoiare. «In quella strana famiglia», scriverà Javier Moro, il biografo più diffidato dai Gandhi, «l’italiana si comportava come una perfetta nuora indiana e l’indiana come una napoletana esuberante».

LA BELLA E LA GRAZIA. Il fattore S, coniato dalla stampa indiana, è il terzo occhio che tutto vede. Il tilaka dipinto sulla fronte dell’India 2.0. Non ha fatto rivoluzioni, pensa la scrittrice Rani Singh, «però ha toccato qualche tabù: le caste, gli stupri, i fanatismi, gli 800 milioni d’indiani affamati» (frase sua: «A Delhi un bimbo su quattro è obeso, in campagna uno su due è denutrito: che progresso è mai questo?»). La corruzione no, quella resta. E se Rajiv lo soprannominavano Mister Clean, il partito è una pattumiera. «Il suo nobile nome copre gli affari delle multinazionali», rinfaccia la paladina indiana dei no global, Vandana Shiva, anche se giurano che non esiste un tesoro di famiglia: l’unica proprietà della straniera, hanno indagato, sarebbe la casa natale di Lusiana sull’altopiano d’Asiago. «Per Sonia che non cambia con il tempo», diceva una dedica di Rajiv il giorno del compleanno numero 44: la voglia di mollare la politica, questo sì, è la stessa d’allora. Dicono resista per i figli, sa che c’è un kamikaze in attesa dei prossimi Gandhi: «L’India è come la Sicilia», commentò un giorno papà Stefano, «puoi avere un presentimento della fine, ma non sai quando arriverà». La salute non va, all’asma eterna che l’affligge s’è aggiunto il tumore che in agosto l’ha portata a curarsi negli Usa, due volte l’ultimo anno. Gli eredi non sono pronti, però. Non lo è Rahul, in sanscrito “colui che capisce” (ha fatto studi a Harvard e poco altro, per la verità), quarantenne ancora indeciso se piacere di più con barba o senza barba: il suo esordio elettorale 2012 è stato un disastro. Lo sarebbe Priyanka, “la bella”, che da nonna Dadi non ha ereditato solo la figura. Una volta lesse che tra gli assassini di suo papà c’era una giovane madre. Volle incontrarla. Poi chiese la grazia e l’aiutò a espatriare: «Che senso ha togliere un genitore ad altri figli?». Priyanka ha un marito chiacchierato, magliaro come lo era zio Sanjay. Questo non aiuta. Ma se ti chiami Gandhi, chissà.