Silvio Piersanti, Il Venerdì 6/12/2013, 6 dicembre 2013
IL PRANZO? E’ A TRE PIANI
Le feste di capodanno giapponesi possono iniziare con una grassa risata il 21 dicembre, giorno del solstizio d’inverno, continuare a Natale con una valanga di dichiarazioni d’amore e infine esaurirsi dall’uno al tre gennaio in un lungo e raffinato pranzo «a tre piani». Il tutto scandito da 108 colpi di gong, uno per ogni peccato dell’umanità, fatti risuonare al tempio. Tutto molto orientale. Ma il gran finale è il non plus ultra della cultura occidentale: la Nona di Beethoven. Vi spiego subito tutto.
Alla risata del solstizio d’inverno mi ha condotto Takashi Y., ex lottatore di sumo, passato ad infoltire le fila della yakuza (la mafia giapponese) quattro anni fa. L’ho intervistato un paio di volte e da allora siamo rimasti in contatto. Mi ha dato appuntamento al tempio shintoista Hiraoka a Higashi-Osaka. «È lontana da Tokyo, ma non ti pentirai», diceva la sua email. «Vedrai una cosa unica al mondo e ti farà cominciare l’anno nuovo con l’animo ben disposto».
Alle dieci del mattino eravamo nel cortile del tempio, circondati da centinaia di fedeli. Appare un monaco nelle sue sontuose vesti seriche, tra spesse volute di incenso. Lo seguono una dozzina di assistenti, anch’essi riccamente addobbati. Tutti tacciono. L’atmosfera è solenne. L’espressione del monaco ieratica. Improvvisamente spalanca la bocca, si china in due e scoppia in una sonora risata. Immediatamente gli assistenti lo imitano e nel giro di pochi secondi tutti i fedeli, noi compresi, sono scossi da incontenibili attacchi di risa. Si va avanti così a sganasciarsi per mezz’ora. Poi i monaci tacciono e riguadagnano la loro aria sacerdotale. Anche noi fedeli ammutoliamo, increduli. Mi spiega Takashi-san: «Così gridiamo al destino avverso: vedi, io sono qui, vivo e vegeto, e mi beffo di te. E allo stesso tempo è un augurio e una preghiera per un anno nuovo, pieno di buon risate». Lo ringrazio di cuore per la straordinaria esperienza. Mi invita al pranzo dell’anno nuovo. L’appuntamento è a Tokyo, il primo gennaio alle 19:00.
La capitale è un trionfo di luminarie natalizie. Le vetrine abbagliano, gli altoparlanti assordano, il traffico stordisce. La sera del 24 dicembre si scartano miriadi di regali. Spesso le ragazze trovano un anello nel pacchetto, perché è tradizione fare una dichiarazione d’amore la notte di Natale. Il 25 in genere ci si riposa dagli eccessi della sera precedente. Dal 26 le donne cominciano a sgobbare in cucina per preparare l’osechi, il pasto che deve durare i tre giorni dell’o-shogatzu (Festa del nuovo anno), la più sentita delle numerose festività giapponesi. Tutto viene cucinato in anticipo in modo che le shufu, le casalinghe, non abbiano nulla da fare in quei tre giorni. Il cibo – pesce, carne, verdure, dolci – viene artisticamente disposto su tre grandi vassoi laccati, sovrapposti l’uno all’altro, uno per giorno.
Entrando nella lussuosa casa, tutta in legno, capisco subito dalle scarpe lasciate davanti all’ingresso che sarà una cena affollata. Infatti vengo accolto da una dozzina di uomini e donne. Lo scambio di inchini e di biglietti da visita richiede alcuni minuti. Poi... tutti giù per terra, nel senso che tutti ci accoccoliamo nella sadica posizione imposta dal galateo giapponese. Le donne indossano ricchi kimono, gli uomini doppiopetto gessati Armani o Valentino. Al più anziano, forse ottantenne, manca l’ultima falange dell’indice della mano destra: è il «distintivo» degli uomini della yakuza. Se la mozzano davanti al capo per testimoniargli coraggio e lealtà. L’anziano è il boss di una «famigliaa». Takashi-san è una sua guardia del corpo. Sul vasto tavolo basso ci sono tre diverse torri composte ciascuna da tre enormi vassoi: ogni prelibatezza è un augurio di felicità, fortuna, salute, successo ecc.
Ormai manca poco a mezzanotte, andiamo tutti al tempio. Niente taxi: ci aspettano davanti alla casa tre grandi mercedes (benzo, le chiamano qui), con autisti in uniforme e guanti bianchi. Le benzo filano silenziose attraverso un paio di quartieri. Ogni strada è illuminata a giorno e brulica di gente in festa diretta al tempio più vicino. Noi scendiamo davanti al controverso grande tempio shinto Yasukuni, dove si venerano i caduti in guerra. Nel grande libro sono elencati circa 2,5 milioni di nomi, ma tra di essi ci sono anche 14 alti ufficiali giustiziati come criminali di guerra dopo la sconfitta del 1945. Ogni visita a questo tempio da parte di uomini politici viene considerata un’aperta dichiarazione di adesione agli ideali nazionalistici della destra, e suscita proteste da parte degli ex Stati nemici Cina e Corea del Sud e delle avverse fazioni politiche interne.
Ecco il primo rintocco della grande campana, il primo dei tradizionali 108: uno per ogni bonno (peccato).
Il giorno dopo sono seduto in quarta fila centrale alla Suntory Hall, non mi sono neanche fermato a leggere la locandina: chi siede in una sala da concerto di Tokyo in uno dei giorni delle festività del nuovo anno sa che in programma non può che esserci la Daiku (la Nona) come confidenzialmente i giapponesi chiamano l’ultima sinfonia di Beethoven. Considerano il coro finale il loro vero inno nazionale. Le sei grandi orchestre sinfoniche di Tokyo, quelle di Osaka, Kyoto, Hiroshima, Sendai, e una miriade di piccole orchestre semiprofessionali e studentesche, eseguono e replicano più volte la Daiku durante le festività di Natale e del nuovo anno. Quando i tecnici della Sony furono in grado di incidere il primo cd, chiesero al fondatore Akio Mori: «Quanto deve durare?». «Quanto basta per farci entrare tutta la Daiku diretta da Furtwangler» fu la pronta risposta.
Questo è il Giappone: prende tutto e tutto metabolizza, senza mai perdere la propria identità.