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 2013  dicembre 06 Venerdì calendario

ERNEST’S RESTAURANT


Il Paseo de Neptuno è l’allegro lungomare di Valencia. Al civico 6 c’è la Pepica. Gran ristorante decaduto, vi diranno. Ma non date retta. Ok, non sarà più «la mecca mondiale della paella», però resta un posto divertente. Al limite, l’unica cosa deprimente della Pepica è una foto appesa tra le foto in fondo al locale. Mostra Hemingway lì a cena nel ‘59. Col torero Ordóñez e qualcun altro. Ernie ha sessant’anni. Sguardo vetrificato dall’alcol. Vertiginoso riporto di capelli bianchi spianato sulla pelata. Porta una di quelle tristi sahariane senza maniche e occhiali alla Arnaldo Forlani in epoca CAF. «Fu una gran serata, da Pepica» scrisse. Ma non siamo obbligati a credergli. Ufficialmente, era tornato in Spagna per raccontare di nuovo la corrida; in realtà col proposito – che è sempre velatamente autodistruttivo – di riagguantare la perduta giovinezza. Non per niente, due estati più tardi si farà saltare la testa con una carabina. Nel frattempo, come noto, aveva molto scritto, bevuto, copulato, affabulato, vissuto. Anche mangiato. Dalle trote acchiappate da ragazzo durante le sconfinate estati «su nel Michigan», alla beccaccia con soufflé di patate e purè di castagne che scoprì a Milano, dov’era stato ricoverato per le ferite riportate da ambulanziere sul fronte del Piave. In seguito sarebbero venute le remoulade di sedano, i ghiozzi fritti, il pollo tartufato, la lepre in salmì, le salsicce su letto di mostarda nella dorata povertà bohémienne degli anni parigini; le incursioni in Austria e Svizzera, sciando, addentando Hirschfilet in Wacholderrahmsauce, che vuol dire semplicemente Cervo in salsa di ginepro. Dunque la Spagna del maialino arrosto, le olive all’aglio, lo stufato di coniglio, il polpo fritto... Fino a Cuba, le aragoste, i fagioli neri, le banane fritte, il filetto di lampuga in «salsa maledettamente buona».
Al pari di guerre, safari, pugni e cornate – tutte queste pappatorie riposano ormai nell’inconscio degli aficionados hemingwayani come altrettante esperienze di verità. Però c’è un uomo che s’è fatto il mazzo. Che ha scavato in libri e documenti per metterle in ordine. Fino a farne un libro. Lui si chiama Craig Boreth – giornalista e imprenditore gastronomico; il libro si intitola invece A tavola con Hemingway e sta uscendo da Ultra edizioni. In copertina, la frase: «Ho scoperto che c’è della poesia nel cibo, mentre è scomparsa da qualsiasi altra cosa. E finché la digestione me lo permetterà io seguirò la poesia».
Boreth ha riscritto la biografia di Hem afferandolo per la gola. Dentro ci trovate tutti i ristoranti e i bar dei quali Mister Papa resta imbattibile testimonial. Prendi, a Madrid, la benemerita trattoria Botín. È tra i locali più antichi di Spagna. Ma a darle una grossa mano fu Ernest, che la ficcò in un capitolo- capolavoro di Fiesta. Risultato: nel quartiere, Botín ha sterminato qualsiasi competitor. Tanto che, fino a non molti anni fa, una tavola calda lì accanto tentava di farsi notare esponendo il cartello Qui Hemingway non ha mai mangiato.
Quanto al bere, gli indirizzi son risaputi: dall’Harry’s veneziano, allo Sloppy di Key West (oggi Capt. Tony’s Saloon), dalla parigina Closerie de Lilas al madrileno Chicote, ai cubani Bodeguita e Floridita (imbevuti di memorie hemingwayane spesso posticce, confezionate a posteriori – a cominciare dal mojito).
Oltre ai cocktail, il libro scevera tutti i vini e perfino le ricette. Dalle più macchinose alle più elementari. Tipo le patate all’olio. Ernie le mangiò a Parigi nel 1924. Finiva dicembre e nel primo pomeriggio lui s’infilò da Lipp per festeggiare la pubblicazione di un racconto che la rivista tedesca Der Querschnitt gli aveva pagato 600 franchi. Alla brasserie Lipp «la birra era molto fredda e meravigliosa da bere. Le pommes à l’huile erano sode e marinate, e l’olio d’oliva delizioso. Macinai del pepe nero sulle patate e inzuppai il pane nell’olio d’oliva. Dopo la prima lunga sorsata di birra mangiai e bevvi molto lentamente»; alla fine «raccolsi con il pane tutto l’olio e tutta la salsa e bevvi la birra lentamente fino a che cominciò a diventare meno fredda, e al- lora la finii e ne ordinai un’altra mezza e guardai mentre la spillavano». Poche descrizioni letterarie mettono tanto appetito quanto quelle contenute in Festa mobile, rievocazione elegiaca della Parigi entre deux guerres. Il libro sarebbe uscito postumo. Quando lo scrisse, Hemingway era già il mausoleo di se stesso. Era quel tipo col riporto e lo sguardo vacuo che vediamo in foto alla Pepica. Col sorrisetto da tough guy – da duro – imbalsamato ormai in una specie di paresi, ripeteva ai fan che quella sua pancia era ancora una matassa di muscoli. Invece no: era lo stomaco di un alcolizzato. Povero Hem, nemmeno la poesia del cibo riuscì a salvarlo da se stesso. O meglio: dal suo doppio. Perché – come ha osservato uno tra i più acuti lettori di Hemingway in Europa, lo scrittore spagnolo Enrique Vila-Matas – Mister Papa fu vittima di un equivoco crudele del quale però era stato l’artefice. «Era un grande scrittore, un autore sperimentale di prima qualità» ha detto Vila-Matas. Un tipo «tragico, scisso, raffinato. Assai più complesso dell’immagine di sé che volle fabbricarsi, che divenne dominante » e che finì per sbranarselo. Ossia il cliché – così caro alla cultura di massa del Novecento – dello scrittore anti-intellet- tuale, il «cacciatore di bufali e leoni, il guerriero».
Di tizi così intrepidi e virili, scopri poi che nella vita privata, coniugale, si riducono spesso a creaturine fragilissime. Soggiogati dalle mogli rapaci che si sono scelti e che li governano come infermiere onnipotenti. Della mesta quotidianità di Hemingway al crepuscolo riferiva Fernanda Pivano in un bellissimo ricordo natalizio risalente al 1948. Ernie e Mary Welsh, l’ultima consorte, sono in vacanza a Cortina. Lui dorme con due fiaschi di Valpolicella sul comodino. Però la mattina si alza prestissimo e girella per casa in mutande scribacchiando svogliatamente. Abbozzi di storie, frasi squinternate o biglietti destinati agli amici: Mary conserva qualsiasi cosa. Spiegando: «Devo tenere tutto perché sarò io a dover pensare ai suoi figli». Un po’ c’era da capirla. Poi eccoci al pranzo di Natale.
Ernest si presenta a tavola sobrio «come sempre prima che i visitatori lo costringessero ai brindisi col Martini». Il menù è «basato sul filetto, che per lo più gli cucinava Mary e invariabilmente Hemingway affrontava assicurandole che era squisito, tenerissimo, cotto alla perfezione. Per gli ospiti c’erano leccornie che lui non toccava, specialmente le torte fatte da Mary, per le quali lei esigeva complimenti». Non c’era albero di Natale, quel giorno: «forse per polemica anticonformista, perché la voga dell’albero era cominciata con la Regina Vittoria ed era diventata ossessiva con lo sviluppo del consumismo». Non c’erano nemmeno «i ravioli di animelle e cervella della tradizione italiana, non c’era il gioco dell’oca pomeridiano». Che razza di Natale. Ma chi se ne frega. «Il Natale era lui». Malgrado tutto.