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 2013  dicembre 06 Venerdì calendario

LA GRAN BRETAGNA DIVENTA PICCOLA?


LONDRA. Prepariamoci al suono delle cornamuse. Nel giugno prossimo gli scozzesi metteranno in scena una riedizione della battaglia di Bannockburn, in cui settecento anni fa il loro condottiero Robert the Bruce sconfisse, o meglio umiliò, gli inglesi. A luglio si terranno a Glasgow i Commonwealth Games, le Olimpiadi delle ex colonie britanniche, che rappresentano pur sempre un quarto dell’umanità. In agosto ci sarà come ogni anno il Festival di Edimburgo, uno dei grandi appuntamenti dell’estate della cultura europea. E il 18 settembre 5 milioni di scozzesi andranno alle urne in un referendum per rispondere a una secca domanda: «Volete che la Scozia diventi indipendente?».
Sebbene i sondaggi finora prevedano che la maggioranza risponderà no (47 a 25 per cento è il risultato dell’ultimo, pubblicato dal quotidiano Scotsman, ma con un 28 per cento di indecisi), a Londra cresce la paura di una brutta sorpresa. Alex Salmond, leader dello Scottish National Party (Snp) e primo ministro del governo scozzese, era stato dato per spacciato già due volte nell’ultimo decennio, e per due volte ha vinto le elezioni locali smentendo i pronostici. Nei giorni scorsi, presentando il «libro bianco» del suo programma per una Scozia indipendente, si è limitato a dire: «Il futuro degli scozzesi non sarà deciso dai politici di Londra, ma dagli scozzesi medesimi».
E mentre David Cameron, a Downing street, dà segni di panico, lui appare fiducioso e tranquillo. «Come tanti scozzesi che vivono in Inghilterra, ho sempre pensato che la questione dell’indipendenza della Scozia fosse futile e non sarebbe mai diventata realtà», commenta Andrew Marr, il più famoso commentatore politico della Bbc. «Ora non ne sono più tanto sicuro».
I movimenti secessionisti, in Europa, sono spesso animati da retorica, populismo e un nazionalismo che rasenta la xenofobia. Salmond e il suo partito sono di tutt’altro genere, a cominciare dall’aspetto fisico del leader: piccoletto, grassottello, perennemente sorridente, il premier scozzese non ha niente di Braveheart, il guerriero ribelle celebrato dall’omonimo film di Mel Gibson. Sembra piuttosto un postino, un salumiere, un maestro elementare. Ma le apparenze ingannano. Da giovane, era un radicale di sinistra con il gusto della provocazionee: nel suo ufficio di analista del petrolio, dentro al quartier generale della Royal Bank of Scotland, teneva in bella vista un busto di Lenin. Lasciava sempre i visitatori a bocca aperta. Quando si è trattato di guadagnare voti, tuttavia, non ha esitato a corteggiare Rupert Murdoch, magnate dell’editoria dalle simpatie apertamente conservatrici, come fece del resto Tony Blair per diventare primo ministro britannico. Il cinquantanovenne capo dello Snp, insomma, è un politico scaltro, spregiudicato, dotato di ironia e carisma: uno che sa incendiare una platea senza mai alzare la voce.
La sua strategia per arrivare all’indipendenza è simile al suo aspetto: non intimorire nessuno, né gli inglesi, né gli scozzesi. «Non cambierà tutto» è il messaggio che invia da Edimburgo: la regina resterà capo di Stato (lo è anche di Australia, Canada e una dozzina di altri Paesi del Commonwealth), la moneta continuerà a essere la sterlina (anche i paesi dell’eurozona hanno una valuta comune), e una Scozia indipendente sarà automaticamente parte dell’Unione Europea e della Nato. I cambiamenti saranno solo in positivo: via i sottomarini armati di missili nucleari dalla base scozzese di Falsane, meno spese militari, più fondi per l’assistenza sociale, la sanità, la scuola, inlla somma più welfare. E come maggior produttore europeo di petrolio, la Scozia diventerà ricca come un Paese del Golfo Persico, con l’ottavo maggiore reddito medio del mondo. Alle Cassandre londinesi, secondo cui la Gran Bretagna dirà di no all’unione monetaria, la Ue e la Nato non accetteranno la Scozia (almeno non automaticamente), e il petrolio presto o tardi finirà, Salmond replica con uno dei suoi sorrisetti: «Siete troppo pessimisti. Una sterlina comune e una Scozia nella Ue sono nell’interesse generale. È impossibile che ci respingano».
Gli ottimisti immaginano che la Scozia diventerà una specie di seconda Norvegia, ricongiungendosi a quello che Salmond definisce «l’arco della prosperità»: le società scandinave, Paesi agiati, civili e con un’etica sostanzialmente progressista. «La forza dell’indipendentismo scozzese» spiega Marr, il mezzobusto scozzese della Bbc, «è che non si basa su nostalgie obsolete per il gonnellino e la spada di Braveheart, non affonda nella storia e nemmeno nell’odio per gli inglesi, tanto più che ce ne sono tanti che risiedono in Scozia e dunque voteranno nel referendum». È la residenza che dà diritto di voto, non le origini: per cui i tanti scozzesi residenti in Inghilterra – come lo stesso Marr e come Alex Ferguson, il mitico ex allenatore del Manchester United – o altrove, come l’attore Sean Connery, che vive alle Bermuda, non potranno votare.
Su che cosa si basa allora il nazionalismo scozzese? «Sul fatto che la Scozia è più di sinistra dell’Inghilterra. Diciamolo. L’università è rimasta gratuita, mentre in Inghilterra costa novemila sterline (11 mila euro) l’anno. Le pensioni sono più alte. La sanità è migliore. È l’odio per la politica liberista della Thatcher, poi proseguita sotto altre forme da Blair, che ha fatto vincere due elezioni a Salmond e potrebbe ora fargli vincere il referendum ». Edimburgo, sostiene qualcuno, somiglia più a Oslo e a Stoccolma che a Londra. La Scozia si sente più scandinava che britannica.
A Londra il fronte anti-indipendenza è compatto: comprende tutti e tre i partiti principali. In prima linea a condurre la campagna «Better Together» (Meglio insieme) del Labour, c’è lo scozzese Alistair Darling, ex ministro del Tesoro. E sulle stesse posizioni è l’ex primo ministro laburista Gordon Brown, un altro scozzese. Rovesciando la propaganda di Salmond, gli inglesi ribattono: la Scozia ha già ottenuto un parlamento e un governo autonomi, ha ampi poteri, potrebbe conquistarne di più se volesse, senza bisogno di secessione. Dotti istituti di ricerca ammoniscono che una Scozia indipendente dovrebbe pagare più tasse e avrebbe minori protezioni sociali: non tutti i civili paesi scandinavi se la passano bene, guardate cosa è successo all’Islanda, che durante il crac finanziario del 2008 ha rischiato la bancarotta nazionale.
Se alla fine vinceranno i no, è probabile che Salmond dirà: per la prima volta abbiamo dato agli scozzesi l’opportunità di decidere il proprio destino. Poi continuerà la sua quieta marcia verso l’indipendenza, da riproporre eventualmente con altre formule, in altra data. Ma se vinceranno i sì potrebbe essere l’inizio della fine per il Regno «Unito»: anche Irlanda del Nord e Galles sarebbero tentate dalla secessione, e l’Inghilterra potrebbe restare sola, una specie di Grande Londra, abbandonata da tutti i suoi vicini di casa. Poi, nel 2017, di referendum ce ne sarà un altro: sull’appartenenza della Gran Bretagna, o della Piccola Inghilterra come magari si chiamerà allora, all’Unione Europea. David Cameron, quando li ha indetti, pensava di ottenere un «no» all’indipendenza scozzese e un «sì» alla permanenza nella Ue. E se invece succedesse il contrario? «Non facciamoci impressionare dai sondaggi», dice Simon Jenkins, columnist del Guardian, «piuttosto prepariamoci allo shock del secolo». In lontananza pare di udire un suono di cornamuse.