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 2013  dicembre 06 Venerdì calendario

VI PIACE CHIAMARLI MOSTRI E INVECE SONO TRA NOI. ANZI, TALVOLTA SIAMO NOI


Martedì 9 luglio 2011 un bambino di dieci anni stava portando a pascolare le pecore a Petlalcingo, una regione del Messico centrale. Oswaldo Zamora ignorava la nuova coltivazione dei campi messicani: inciampò in un esplosivo perdendo una gamba e un braccio.
L’episodio riassume l’assurda guerra contro la criminalità organizzata che ha reso tutti i Messicani possibili «danni collaterali». Siamo circondati dai simboli del narcotraffico, dai narcocorridos [una sorta di gangster rap messicano] che cantano alla radio le gesta dei criminali, fino agli hotel di lusso in cui non va nessuno, e che servono per il riciclaggio di denaro.
I narcos si sentono così sicuri che ogni tanto si travestono da narcos. Li puoi vedere mangiare pesce nel loro ristorante preferito, agghindati con vistose camicie di Versace, stivali in pelle di struzzo e catene d’oro. In alcuni Stati del Paese non c’è controllo. A Pasqua del 2010 sono andato con mia moglie e mia figlia di dieci anni nella fattoria dei miei cugini, nel deserto di San Luis Potosí. In questa zona poco abitata il cartello degli Zetas impone la sua legge. Una sera due camionette nere con i vetri oscurati sono venute a terrorizzare i poverissimi abitanti. Hanno assaltato il distributore di benzina e sequestrato una ragazza. Noi siamo rimasti chiusi nella fattoria per due giorni, fino a quando non siamo riusciti a scappare. Queste sono state le nostre vacanze. L’aneddoto è solo un indizio di ciò che si sta soffrendo a livello nazionale.
Nel dicembre del 2006, quattordici giorni dopo aver ottenuto la presidenza, senza alcuna preparazione e senza averlo annunciato durante la campagna elettorale, Felipe Calderón dichiarò guerra al narcotraffico. Questa strategia affrettata per combattere un avversario di cui non si conosceva la forza ha causato una strage: 80mila morti e 30mila dispersi in sei anni.
Comprendere il narcotraffico significa comprendere la relazione tra Messico e Stati Uniti. Condividiamo la frontiera più attraversata del mondo e molti di questi attraversamenti sono illegali. Gli Stati Uniti sono i principali consumatori di droga e i principali venditori di armi del pianeta. «Loro ci mettono il naso, noi ci mettiamo i cadaveri», ha detto Eduardo Galeano.
Washington continua a presentare il narcotraffico come una minaccia esterna. Gli Stati Uniti hanno basato la loro politica estera su un nemico di volta in volta diverso: il nazismo, il comunismo, il terrorismo islamico, il narcotraffico. Il punto in comune tra tutti è che si tratta di rivali anti-americani.
Il Congresso degli Stati Uniti si è interrogato sulla possibilità che Al Qaeda possa trovare una base in Messico con l’appoggio dei narcos (lo suggerisce, per esempio, un rapporto del 2009 della Rand Corporation, importante società di consulenza sui temi della sicurezza nazionale).
In questa rappresentazione del narcotraffico come pericolo straniero, l’America Latina appare il baluardo non solo delle droghe, ma anche degli eventi. Non conosciamo i capi che permettono il consumo nel territorio statunitense. In compenso, sappiamo i nomi e i vizi privati dei loro soci latinoamericani.
Nel 1994 tenevo un corso all’Università di Yale. Abitavo accanto al pronto soccorso di un ospedale. Di notte si sentivano spari e sirene di ambulanze. Mi spiegarono che la mafia italiana era molto attiva nella zona, il che spiegava l’eccellente qualità delle pizzerie. Questo prima che la serie tv I Soprano rivelasse la presenza di operazioni illegali; tuttavia, quando a lezione parlavamo del tema, tutte le domande riguardavano il Messico. Nell’immaginario collettivo persisteva l’idea che il problema fosse al di fuori del Paese.
Nella loro lotta per il controllo simbolico del problema, gli Stati Uniti hanno ottenuto il privilegio di operare nell’ombra e hanno alimentato le narrazioni sul Messico. Nel suo stupendo romanzo Il potere del cane, Don Winslow, ex agente della Dea, ci mostra la corruzione della polizia statunitense, ma i conflitti principali avvengono in Messico. La stessa cosa accade in Zero Zero Zero di Roberto Saviano. Lo svolgimento della sua ricerca è di enorme interesse. Un poliziotto americano, di origini italiane, gli dice che solo uno come lui può infiltrarsi per andare a fondo del problema. Sembra che finalmente si saprà l’altra parte della storia, quella delle mafie che operano dentro gli Stati Uniti con la complicità delle autorità. Ma Saviano, come Winslow, si sposta in Messico e narra con efficace drammaticità la tortura e l’assassinio di Enrique Camarena, agente della Dea. Ancora una volta, i fatti decisivi avvengono fuori dagli Stati Uniti.
I giornalisti messicani, che hanno cercato di raccontare in altro modo queste storie, hanno pagato un prezzo molto alto: secondo Reporter Senza Frontiere siamo il Paese in cui è più rischioso svolgere questa professione.
Curiosamente, lo stesso presidente Calderón considerava i narcos come un nemico «estraneo», al modo degli americani. Erano i barbari, i malvagi, gli Altri, che cercavano di attaccarci. Il suo governo insistette nel sostenere che la violenza proveniva da satrapi che si uccidevano tra di loro, contendendosi i territori. In modo involontario, molti film, romanzi e canzoni hanno contribuito alla creazione di uno stereotipo: il narco come un mostro diverso da noi, che usa posate d’oro per mangiare il fegato del poliziotto. Capire che i criminali appartengono alla nostra società, che per molti di loro vendere droga è una scelta sensata in un Paese senza opportunità, costa fatica.
Durante la guerra di Calderón sono stati tralasciati gli aspetti educativi, economici e culturali del problema. Il presidente andò avanti, dimostrando che ogni colpo era un buco nell’acqua. Quando Wikileaks rivelò che l’ambasciatore degli Stati Uniti in Messico riteneva che l’esercito e la polizia fossero complici dei delinquenti, il presidente chiese, e ottenne, che fosse rimosso dall’incarico.
Questa disastrosa politica di sicurezza fece sì che il Pan, il partito che sosteneva Calderón, perdesse le elezioni del 2012 scendendo al terzo posto nei consensi. Astutamente, il nuovo presidente Enrique Peña Nieto, del Pri, ha smesso di parlare del tema. Questo ha risollevato gli animi, ma le morti continuano.
Nella loro nevrotica relazione, Messico e Stati Uniti possono essere vicini distanti o nemici intimi. L’importante è capire che condividiamo la stessa storia. I narcotrafficanti non sono extraterrestri. Sono un fenomeno più difficile da accettare: si trovano in mezzo a noi, nella casa accanto, nelle nostre famiglie e, talvolta, nel nostro specchio.

Traduzione di Stefania Marinoni

* Scrittore e giornalista (Città del Messico, 1956). Ultimo libro: La piramide (Gran Via editore, traduzione di M.C.Secci)