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 2013  dicembre 06 Venerdì calendario

PIUMINO DEMOCRATICO


Avrò avuto 15 anni e ricordo che mia mamma mi regalò un piumino Moncler. L’ho indossato per tanto tempo. Abitavo vicino a Como, la mattina andavo a scuola in moto e mi riscaldava. E poi nella mia testa era di un marchio famoso, popolare, anche se era un po’ sparito dal mercato». Nel 2003, più di un quarto di secolo dopo, questi ricordi giovanili hanno avuto un ruolo, confessa Remo Ruffini, nella decisione di comprarsi Moncler, un’azienda francese fondata nel 1952 a Monestier de Clermont (dal cui acronimo il nome). Oggi i suoi piumini sono diventati globali. L’anno scorso l’azienda ha registrato ricavi per 489,2 milioni di euro e ora sta per quotarsi in Borsa.
Camicia bianca che spunta da un girocollo nero, 52 anni, Ruffini, presidente e Ceo di Moncler, ci accoglie nella sala riunioni del quartier generale milanese. E ci racconta la sua storia. In controtendenza: un italiano che salva uno storico marchio francese, e lo rilancia nel mondo.
Perché scelse la Moncler?
«Partiamo dall’inizio. Dall’America. Nel ’72-73 mio papà Gianfranco, imprenditore della moda a Como, aprì una divisione negli Stati Uniti e si trasferì lì, e la sua azienda divenne più americana che italiana. Per me l’America era sempre stata Los Angeles, gli skateboard, McDonald’s. Invece, subito dopo aver finito la scuola, andai qualche mese a trovare mio padre e vidi che c’era anche un’altra America, da Long Island al Quebec, in Canada, passando per quegli Stati che vengono chiamati New England. Mi resi conto di questo modo di vivere diverso, elegante, che aveva le sue radici nei Kennedy. Così tornai in Italia e nel 1984 fondai appunto la New England, unendo la cultura di quell’America con una creatività e un’ironia un po’ italiana. Venduta l’azienda, nel 2003 ero alla ricerca di un marchio già esistente, vero, con una storia e un’idea da raccontare, e per me non c’era niente di più forte di Moncler, che aveva già cinquant’anni alle spalle e aveva inventato un prodotto partendo dai sacchi a piuma».
Essere figlio d’arte l’ha aiutata?
«Moltissimo. Sin da piccolo mi ha permesso di apprendere questa sorta di linguaggio di famiglia. Grazie a mio papà ho frequentato molto gli Stati Uniti e ho appreso la loro cultura totalmente internazionale. Il mondo non era solo l’Italia, ed ebbi la fortuna di capirlo già a 15 o 18 anni, quando ero ancora un ragazzino di Como, di una città artigianale di grandissimo successo, sì, ma legata a piccole aziende da 14-15 persone. Vendevano in tutto il mondo, ma aspettavano pur sempre che i clienti arrivassero da loro a comprare la seta stampata o la cravatta finita».
C’è una frase o un atteggiamento di suo padre che l’ha segnata?
«Più che altro mi ha ispirato la sua visione, e il fatto che sapesse andare oltre il concetto tradizionale di azienda tessile italiana. Usava energie diverse, mischiava le culture, ad esempio lavorando per le scenografie e i costumi dei musical di Broadway, come il famosissimo "Hair". Anch’io oggi, seguendo inconsciamente il suo esempio, uso intelligenze diverse, lavoro con cantanti come Pharrell Williams, che mi dà una mano a creare una parte della collezione».
Quali sono i valori del suo brand e dei suoi clienti?
«Il prodotto esprime sempre da sé i tuoi valori, non c’è bisogno di raccontarsela tanto. Leggerezza, calore, eleganza, viaggio, funzione d’uso: sono queste le nostre parole chiave. Penso ai 180 grammi del nostro recente piumino estivo, alla morbidezza di quando lo prendi in mano, a come ti tiene caldo, al fatto che puoi viaggiare e tenerlo comodamente in una borsa, senza che si stropicci. È molto facile da trasportare, diversamente da un cappotto».
Una volta ha detto: «Volevo creare una giacca che andasse bene al ragazzo con lo skateboard e alla signora che va alla Scala». Ci è riuscito?
«Secondo me sì. Entro spesso nei nostri negozi e vedo il ragazzino con i jeans larghi accanto alla signora superelegante che magari vuole sostituire la vecchia pelliccia. Oggi è un altro mondo rispetto agli anni Ottanta, non voglio fare una giacca solo per i giovani urbani. Voglio usare il nostro know-how per creare un progetto per tutti. Questa è la nostra unicità. La nostra tecnologia è nata per lo sport, ma è piacevole per tante funzioni d’uso. Riusciamo a vendere al 50 per cento agli uomini e al 50 alle donne, e raggiungiamo età e caratteri molto diversi, come dimostra l’elenco delle celebrities che, pur non essendo nostre testimonial, sono state fotografate con i nostri piumini: Madonna, Carolina di Monaco, Shakira, Julianne Moore, Katie Holmes».
Come è riuscito a globalizzare il piumino?
«Oggi è fondamentale essere speciali e specialisti. Potremmo fare "brand extension", creare anche mille prodotti con il nostro logo, ma preferiamo farne pochi, rimanere concentrati, vicini a chi siamo noi, alla storia della marca. Se vuoi conquistare il mondo devi avere un linguaggio molto semplice e devi raccontare una storia comprensibile a consumatori sparsi in tutto il mondo. Abbiamo puntato subito alla qualità eccellente, e pian piano ci stiamo arrivando».
Tutto made in Europe?
«Sì, tutto. In Italia produciamo non più del 30-40 per cento, perché ormai è difficile trovare qui dei fornitori di qualità, visto che tutti hanno delocalizzato in Cina. Poi produciamo anche in Romania e Bulgaria. Tutta la materia prima, dalla piuma al nylon alle zip, la acquisiamo noi in Italia. Controlliamo tutto all’interno della fabbrica di Padova, mandiamo fuori solo per cucire, e riportiamo tutto nel magazzino di Piacenza, dove facciamo l’ultimo controllo qualità, imbustiamo e spediamo».
Un italiano che salva un marchio francese. Gliel’hanno mai perdonata in Francia?
«Credo debbano essere contenti, perché io rispetto moltissimo le radici di Moncler, il mio logo è ancora bianco, rosso e blu e ne vado orgoglioso. Per essere vincente, una marca deve essere cittadina del mondo».
Come vede le recenti acquisizioni francesi di storici marchi italiani?
«Da una parte con dispiacere, ma dall’altra capisco che il mondo deve essere competitivo, e chi deve vincere vinca. Tra Italia e Francia oggi non c’è una grande differenza, entrambe sono in crisi e sono grigie, senonché loro hanno due-tre grandi gruppi che, nel nostro settore, sono potentissimi».
Perché ora si quota in Borsa?
«Ci abbiamo già provato nel 2011, ma non ce l’abbiamo fatta. È una cosa importante, lo dimostra l’esperienza di alcune aziende del nostro settore, da Ferragamo a Cucinelli a Prada, che dopo la quotazione hanno cambiato faccia: si acquisisce una visibilità diversa, si attraggono risorse umane di qualità, si diventa più aperti e trasparenti, si formano cda internazionali. Un’azienda non deve essere fatta da una persona, ma da un team, e la Borsa ti permette di costruire un team di livello».
Un analista citato da Bloomberg dice che il vostro business è ciclico e nei vostri negozi non c’è nulla da comprare d’estate.
«L’ho letto anch’io. Direi che in parte ha ragione. In estate c’è poco, c’è meno che in inverno. Ma non ho mai pensato che siamo perfetti. Vorremmo arrivare a vendere il 70 per cento d’inverno e il 30 d’estate, ci sono ancora molte cose da fare, ma direi che questa è l’ultima, perché non voglio snaturare Moncler, tradire una marca che è nata a Grenoble e ha passato i primi anni a studiare spedizioni sul Karakorum, sull’Himalaya o in Alaska».
Avete appena aperto dei negozi a Hong Kong e a Istanbul, e presto sarete anche a Mosca. Qual è il vostro sogno a lungo termine?
«Le crisi sono in agguato ovunque, e quindi il sogno è rimanere con i piedi per terra, diversificare il rischio e stare per un terzo in Europa, un terzo in Asia e uno in America e resto del mondo. Guardiamo con molto interesse il Brasile, la Russia, il Canada e il Kazakhstan. Le temperature non ci spaventano, abbiamo già un negozio a Harbin, una città del nord della Cina dove c’è il ghiaccio per strada otto mesi l’anno».
Negli anni Ottanta, il piumino Moncler era un simbolo dei "paninari". Che cosa ricorda della Milano di allora?
«Ricordo tutto, erano gli anni nella mia giovinezza: i paninari (anche se io non lo ero), piazza San Babila, le vespe, i piumini supercolorati, i boots ai piedi. La Milano di oggi invece è grigia, non turchese, gialla, rossa e arancione come allora. Perché l’umore è grigio, le aspettative sono totalmente diverse».
I suoi studi si sono fermati al diploma. Non avere una laurea è stato mai un problema? Si dice che lei fosse un po’ scapestrato...
«È vero, lo studio non era il mio forte. Sicuramente ha rappresentato un limite, fai molta più fatica a creare un’azienda se sei autodidatta. Lo dico anche perché i miei figli leggeranno quest’intervista...».
Ha tempo anche per altro, o solo per i suoi piumini?
«Ho seguito molto i miei ragazzi quando erano piccoli. Mi piace fare vela sul lago di Como, sciare lì vicino, tra i piani di Bobbio e Artavaggio. Ho sempre visto tanto cinema, adoro "Il padrino" perché ci ritrovo le atmosfere, l’energia, i costumi della mia storia, tra Italia e America».
Dietro di lei c’è una foto gigantesca in bianco e nero. Raffigura la cima innevata di una montagna. A che punto si sente, in questa scalata?
«Dove sono arrivato, dice? (Ruffini si volta, sposta la sedia, affronta la montagna e indica un punto quasi a metà, ma più verso il basso che verso l’alto, ndr.). Noi siamo qui, dove si vede ancora la roccia, ed è pieno di concorrenti. Abbiamo scalato molto, ma solo la parte più facile».