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 2013  dicembre 06 Venerdì calendario

AL TERRORISMO SERVE IL BRAND


Anche il terrore ha i suoi brand, i suoi loghi aziendali, e non appare per nulla indifferente al marketing dell’immagine. Tutti ricordano la stella a cinque punte delle Brigate rosse stampigliata sullo stendardo appeso dietro ai “prigionieri politici”. E ci sono anche le bandiere con frasi tratte dal Corano, che campeggiano dietro le spalle dei guerriglieri islamici, mentre ai loro piedi si trovano ostaggi occidentali, più difficili da leggere e identificare per gli occidentali perché scritte in arabo. Secondo gli esperti di marchi il branding appare come “uno strumento senza coscienza e senza moralità”: può essere usato a scopi positivi come negativi, spesso in contemporanea. Lo scrive Steven Heller, in passato art director al “New York Times”, nella prefazione alla raccolta ragionata di 64 loghi e segni iconografici di gruppi terroristici che hanno operato, e ancora operano, nel mondo dalla fine degli anni Settanta a oggi, “Branding Terror” (24ore Cultura). I brand, pensate alla Coca-Cola e ad Apple, sono immagini fondamentali per identificare e vendere le merci; senza il brand molte aziende non esisterebbero neppure. Alla fine degli anni Novanta Naomi Klein fece una critica perspicace del mercato dei simboli aziendali in “No logo”, che costituì un punto importante nella comprensione del passaggio che era avvenuto dalla produzione di merci alla produzione d’immagini. I marchi allora criticati, anche alla luce della loro delocalizzazione produttiva in Asia, erano Nike, Reebok, Adidas, Disney; oggi gli stessi non hanno più la medesima importanza; inoltre la considerazione di cui godono i nuovi loghi - Facebook, Twitter, Google, Apple - legati alla comunicazione, al computer e al Web, non è più negativa come allora; anzi, sono ammirati. In dieci anni si è rovesciato tutto.
E i brand del terrore? Come sono e come funzionano? Che veste grafica hanno? Il libro, curato da Artur Beifuss e Francesco Trivini Bellini, li presenta attraverso efficaci schede, in cui sono riportati la storia dei singoli gruppi terroristici, i loro simboli e colori, l’uso e la diffusione. Secondo Heller, esperto di grafica, si tratta di una raccolta che presenta una singolare mescolanza di banalità ed eccezionalità. Accanto alle aquile, ai mitra, alle spade, ci sono colombe e simboli più pacifici. Se il logo è «il punto di contatto essenziale tra il pubblico e qualsiasi prodotto, gruppo o organizzazione», come scrive Heller, non si può fare a meno di accorgersi che molti dei marchi del terrorismo internazionale non sono diretti all’Occidente.
La maggior parte delle schede redatte dai due autori riguarda i gruppi islamici, al Qaeda e i suoi succedanei, gruppi collegati o rivali, che espongono marchi aggressivi, con scimitarre, fucili d’assalto, bombe a mano, la cui estetica non pare accattivante. Dominano le frasi del Corano (“Combatteteli finché Allah li castighi per mano vostra, li copra d’ignominia, vi dia la vittoria su di loro, guarisca i petti dei credenti”), il tutto ovviamente in arabo, perché la comunicazione è destinata ai milioni di fedeli di Maometto, cui le imprese terroristiche sono d’esempio: messaggio simbolico e insieme attività performativa. Il marchio è fondamentale per firmare un attentato o atto di guerra. Ricorda Artur Beifuss che nel 2006 molti dei razzi sparati dalla Striscia di Gaza sulle cittadine israeliane erano coperti di scritte in ebraico redatte dal Movimento della jihad islamica: “Ora sapete chi siamo”. Esempio perfetto di marketing del terrore. Se si esaminano i 65 simboli si scopre che alcuni si rifanno all’araldica tradizionale: blasoni con spade e libro, leoni rampanti, colori simbolici (il verde come dominante), eleganti calligrafie, lettering molto tradizionale. Sono i brand meno aggressivi. Altri rimandano alla iconografia tradizionale dei movimenti di sinistra, socialisti e comunisti: falce e martello, stella rossa, pugno chiuso, giallo e rosso come colori di base; e sono sempre meno. Gli autori ricordano l’origine della stella, presente solo nei loghi di paesi toccati dal movimento comunista internazionale: nata nel 1848, si diffonde dopo la Comune di Parigi; le cinque punte indicano l’unione di lavoratori, contadini, intellettuali, giovani e soldati.
Niente del genere nei brand del terrorismo islamico più recente, dove domina il fucile mitragliatore M16 o AK47: due fucili incrociati come negli emblemi di battaglioni o armate. I simboli di riscossa politica, tipici degli anni Sessanta e Ottanta, dopo la nascita di Hamas, degli Hezbollah e al Qaeda, si sono trasformati in loghi militari, simboli di reparti di un esercito che ha nel verde Islam il suo colore prevalente. Si nota in molti marchi l’uso di ritocchi con Photoshop per ottenere effetti di sfumato, le ombre e la terza dimensione. Pochi sono quelli semplici, composti da un solo segno o colore; la maggior parte cerca di racchiudere nel logo più messaggi o allusioni: frasi, date, citazioni, oggetti, architetture (la Moschea al-Aqsa di Gerusalemme).
La semplicità però è raggiunta paradossalmente dalla bandiera di al Qaeda. Nera bucata in bianco, con i caratteri calligrafici arabi, che recitano: “Non c’è divinità se non in Allah, e Maometto è il Suo messaggero”. Si tratta del nero (al-raya) della bandiera della Jihad, vessillo che Maometto avrebbe fatto sfilare in battaglia. La più bella è l’elegante bandiera dell’Ibda-C, Fronte Combattente Islamico del Grande Oriente, che agisce in Turchia dal 1993 mediante attentati suicidi: tre mezze lune bianche con la stella a cinque punte, bianca su campo azzurro. Il riferimento è alle bandiere del califfato ottomano dal 1844 al 1923; ma c’è anche quella del gruppo iraniano Mek, contrario al regime politico: l’Huma, uccello mitologico persiano si unisce alla spiga di grano in giallo su campo azzurro; la bandiera essenziale dell’Unlf, fronte autonomista del Manipur, Stato indiano: stella rossa in campo bianco, bordata di rosso all’intorno.
Il logo più moderno, prodotto con il computer, è quello della Ea, Lotta Rivoluzionaria, terroristi greci, l’unico marchio che risulta usato in pubblicazioni digitali, per questo simile a una tag. La grafica complessiva del terrorismo attuale appare legata a una comunicazione visiva tradizionale, alla tipografia, e non certo alla comunicazione che utilizza Internet. Un segno ulteriore che molti di questi gruppi hanno le loro radici nel XIX e XX secolo, se non ancora più indietro. Il libro non registra quest’aspetto, che fa invece molto riflettere sul rapporto tra simboli e idee, tra forme grafiche e movimenti religiosi e politici. Mentre i produttori di brand commerciali si spostano sempre più verso immagini leggere e veloci (la mela di Apple, l’uccellino di Twitter, l’arcobaleno di Google), i terroristi s’ispirano a iconografie tardo medievali, premoderne, come del resto gli eventuali esiti politici delle loro battaglie ancora in corso.